18 Marzo 2013, 08.19
Ricorrenze

Aldo Moro: tragedia di un uomo solo

di Leretico

Il 16 marzo del 1978 le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e uccisero tutti i membri della sua scorta. Il 9 maggio venne ritrovato cadavere anche lo statista. Eventi che segnarono profondamente la storia della Repubblica italiana


"Il 16 marzo 1978, qualche minuto prima delle nove, l'onorevole Aldo Moro, Presidente della Democrazia Cristiana, esce dal portone numero 79 di via del Forte Trionfale. Sono ad attenderlo la 130 blu di rappresentanza e un'alfetta bianca con la scorta.
Il Presidente deve recarsi prima al Centro Studi della Democrazia Cristiana poi, alle dieci, alla Camera dei Deputati, dove l'onorevole Andreotti presenterà il nuovo governo e ne dichiarerà il programma.
Di questo nuovo governo, che sarà il primo governo democristiano sorretto anche dai voti comunisti, l'onorevole Moro è stato accorto e paziente artefice.
Ma c'é inquietudine sia nel Partito Comunista, deluso dalla presenza nel nuovo governo di vecchi e non molto stimati uomini della Democrazia Cristiana, sia in quella parte della Democrazia Cristiana che teme il realizzarsi del cosiddetto compromesso storico."
 
Cominciò così quella fatidica giornata di Aldo Moro nelle parole di un cronista di allora, ma finì in maniera molto diversa da come era stata programmata. La nazione si dibatteva in quei mesi in una situazione di crisi prolungata in cui formare un governo era veramente difficile.
Il parallelo con le difficoltà odierne viene immediato: situazione sociale di alta tensione, difficoltà a trovare una maggioranza per far sorgere un governo necessario per risolvere i problemi nodali del paese. Quel giorno di marzo del 1978 accadde però un fatto che diede un'accelerazione agli eventi inaspettato e tale che tutti gli ostacoli politici e morali che si erano frapposti alla formazione del nuovo governo democristiano furono spazzati via come foglie al vento della preannunciata tempesta.
 
Così l'edizione straordinaria del Gr2 alle 9,25 del 16 marzo 1978:
"Interrompiamo le trasmissioni per una drammatica notizia che ha dell'incredibile e che, anche se non ha trovato finora una conferma ufficiale, purtroppo sembra vera: il presidente della Democrazia Cristiana, on. Aldo Moro, è stato rapito poco fa a Roma da un commando di terroristi."
Quattordici brigatisti (solo nove ammessi ufficialmente dalle BR), alcuni dei quali appostati presso lo stop in fondo a via Fani nel punto in cui incrocia via Stresa organizzarono e misero in atto l'agguato in cui fu rapito Moro e persero la vita i 5 uomini della scorta.
 
I terroristi, vestiti con divise dell'Alitalia, bloccarono il traffico in vari punti con palette della polizia, fermarono con uno stratagemma le due macchine di Moro, esplosero tantissimi proiettili sugli uomini della scorta "eliminadola", portarono via il Presidente della DC e le sue borse in pochi minuti.
La precisione e la velocità dell'azione fecero pensare ad una elevata professionalità più volte smentita dai brigatisti. Eppure Moro fu l'unico in mezzo a quella pioggia di proiettili a rimanere illeso, tranne per una ferita alla gamba, individuata dall'autopsia dopo il suo ritrovamento in via Caetani il 9 maggio successivo.
Sicuramente poterono calcolare i tempi e i modi dell’agguato facendo delle prove. Questa considerazione rimane ancora senza una adeguata conferma: una manovra così complessa non poteva essere stata effettuata con tale precisione senza una preparazione professionale. Dove si erano allenati i terroristi?
 
Il confronto cominciò con la prima lettera di Moro prigioniero che arrivò il 29 marzo indirizzata a Cossiga, Ministro degli Interni.
La situazione era ancora fluida. Cossiga aveva avuto il tempo di organizzare i primi passi per affrontare l'emergenza. In suo aiuto l'amministrazione americana aveva inviato un esperto negoziatore e sembra che il ministro Cossiga all'inizio ne seguì i consigli e le indicazioni.
 
Il 9 marzo 2008, a trent'anni dal rapimento e uccisione di Moro, Steve Pieczenick, il negoziatore inviato in quei terribili giorni dal presidente americano Carter, in un articolo su La Stampa ammise: «Ho mantenuto il silenzio fino ad oggi. Ho atteso trent’anni per rivelare questa storia. Spero sia utile. Mi rincresce per la morte di Aldo Moro; chiedo perdono alla sua famiglia e sono dispiaciuto per lui, credo che saremmo andati d’accordo, ma abbiamo dovuto strumentalizzare le Brigate Rosse per farlo uccidere. Le Br si erano spinte troppo in là».
 
Questa rivelazione illuminò tutta la vicenda del sequestro in modo completamente nuovo e ne permise una diversa interpretazione.
La strategia del Governo in quei tragici giorni è riassunta dalle parole di Pieczenick con una precisione esemplare, pragmatica, tipica della mentalità americana in politica.
Non credo che Cossiga la pensasse allo stesso modo e vista la sua responsabilità come Ministro degli Interni, credo avesse sinceramente a cuore la soluzione positiva del rapimento, positiva per Moro possibilmente trovato dalla polizia. Ma la strategia del governo non era frutto solo delle decisioni di Cossiga.
Andreotti, primo ministro proprio a partire dal quel 16 marzo, fu molto influente sulla posizione del governo non solo nei primi giorni, ma per tutti i 55 giorni del rapimento.
 
La "fermezza" di fronte all'atto proditorio della strage e alle richieste dei brigatisti, doveva essere l'unica linea da perseguire: nessuna trattativa. Ma in quei primi giorni e almeno fino al 18 aprile, le Brigate Rosse non erano interessate ad alcuna trattativa.
Il loro progetto era chiaro e lo avevano ben scritto nei loro primi comunicati: fare il Processo ad Aldo Moro, e simbolicamente a tutta la DC, e rivelare al popolo i segreti che Moro avrebbe dichiarato durante la prigionia.Volevano controbattere al processo che in quei mesi si svolgeva a Torino contro i capi storici delle BR, con un controprocesso al potere che fosse contemporaneamente un attacco al cuore dello Stato.
 
Avevano poi un'altro obiettivo: spostare gli equilibri del potere, spostare, io penso, il peso all'interno del Partito Comunista dalla direzione alla base: fare in modo che la base impedisse la scelta della direzione per il "compromesso storico".
Moretti stesso, uno dei leader delle Brigate Rosse, gestore in prima persona del sequestro Moro insieme a Prospero Gallinari, Anna Laura Braghetti e Germano Maccari, ammise questo obiettivo, frustrato a suo dire già a soli tre giorni dall'inizio dell'operazione.
La presa di posizione ferma, irremovibile di Berlinguer a difesa dello Stato e della democrazia, impressionarono Moretti facendogli capire quanto il processo di integrazione del PCI con il potere della DC e con lo Stato fosse avanzato.
 
Nei giorni del sequestro l'azione del governo si dispiegò quindi soprattutto a livello di comunicazione. I giornali cominciarono a uniformarsi alla linea che il governo aveva inteso dettare.
Se il prigioniero avesse scritto e fatto pressione per salvarsi la vita, compito del governo sarebbe stato di limitare l'effetto di quelle lettere, di quei messaggi.
Se le BR intendevano usare le parole di Moro per influire negativamente sulle istituzioni, in senso destabilizzante, allora le parole di quel prigioniero dovevano essere sminuite, depotenziate, screditate, se possibile distrutte.
Già dai primi giorni, insomma, si prefigurò una cristallizzazione delle posizioni, iniziata come prima parte di una strategia che purtroppo, per volontà diretta o per effetto degli eventi, non passò mai ad una sperata e agognata seconda parte. E credo che Cossiga pur avendo nei suoi piani, come ho già detto, anche una seconda parte, ad un certo punto non riuscì più ad attuarla, per la rigidezza a cui arrivò la DC nel suo mantenere la linea della fermezza, per l'influenza negativa determinante di Andreotti e per la totale assenza di iniziative per instaurare una trattativa reale.
 
Qualcuno però, al di fuori della prigione delle BR, temeva fortemente che Moro cedesse, soprattutto sul segreto di Gladio che, se rivelato, poteva essere molto pericoloso.
La presenza di un gruppo di agenti segreti, unito sotto la sigla in codice di Gladio, scelto e addestrato per resistere almeno 5 giorni ad una invasione sovietica del territorio italiano, la cui esistenza era nota solo ai presidenti del Consiglio, ruolo che Moro aveva rivestito negli anni "60, non poteva essere passata ai brigatisti per poi finire nelle mani dell'Unione Sovietica.
Per questo, quando si poterono leggere sui giornali le parole di Moro prigioniero che scriveva che per lui c'era "il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che [avrebbe potuto] ...essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni", iniziarono a muoversi i servizi segreti e forse anche quelli che non erano sotto il pieno controllo del governo.
Insomma la mossa delle BR di rivelare al mondo proprio la prima lettera indirizzata a Cossiga, le "manovre occulte" che a detta dei brigatisti "sono la normalità per la mafia democristiana", innescarono altre forze che giocarono il loro ruolo non certo positivo per la sorte di Moro.
 
"Moro comincia, pirandellianamente, a sciogliersi dalla forma, poiché tragicamente è entrato nella vita. Da personaggio ad 'uomo solo', da 'uomo solo' a creatura: i passaggi che Pirandello assegna all'unica possibile salvezza".
Così scrisse Leonardo Sciascia, pensando a Moro, al suo tentativo disperato di salvarsi, pensando alla risposta che Taviani (uno dei massimi dirigenti della DC nel “78) aveva dato dopo essere stato chiamato in causa da Moro in un'altra lettera recapitata a Zaccagnini intorno al 4 aprile.
Moro scrisse di avere parlato con Taviani di una legge sui rapimenti che conteneva norme a vantaggio dei rapiti. Taviani smentì.
Moro se ne indignò e non capì quale potesse essere la ragione di una smentita del genere, gratuita e provocatoria. Forse americani o tedeschi ispiravano tale condotta?
 
Il 15 aprile le BR chiusero il processo a Moro e lo condannarono a morte.
Clamorosamente però fecero una strana ulteriore scelta: decisero di diffondere solo clandestinamente le informazioni in loro possesso. E viene da chiedersi cosa fosse accaduto per un tale cambiamento di rotta.
Perché vollero rinunciare al vantaggio enorme della gran cassa dei media, tutti sempre pronti ad amplificare i loro messaggi deliranti?
 
Qualcosa successe che fece cambiare strategia alle BR.
Forse qualcosa legata alla strategia messa in campo dai servizi segreti? Non sappiamo.
Quello che è certo è che qualche giorno dopo, il 18 aprile, una concordanza di eventi cambiò il percorso dell’Affaire Moro. Il falso comunicato n. 7 del lago della Duchessa e la scoperta del covo brigatista in via Gradoli a Roma.
 
Si scoprì circa un anno dopo che quel falso comunicato del 18 aprile, che aveva invitato a cercare il cadavere del Presidente in un lago ghiacciato sugli Appennini, ai confini tra Lazio e Abruzzo, il lago della Duchessa, fu scritto da Tony Chicchiarelli, personaggio equivoco della malavita romana, legato ai servizi segreti e morto in strane circostanze nel 1984.
Si scoprì inoltre che l'appartamento al civico 96 di via Gradoli a Roma, che servì ai brigatisti nei primi giorni del sequestro Moro come base logistica, era situato in un palazzo che allo stesso piano vedeva almeno tre altri appartamenti nella disponibilità dei servizi segreti o di persone legate ai servizi segreti.
E' stranissimo poi che, pur essendo stato segnalato da Prodi, frutto della famosa seduta spiritica bolognese tenuta insieme ad alcuni amici, gli uomini della polizia non fossero riusciti a trovare il covo brigatista se non per un banale incidente: qualcuno aveva lasciato aperto il rubinetto della doccia con il getto volutamente diretto contro la parete dove un foro permise all'acqua di penetrare fino all'appartamento del piano inferiore.
 
Nel covo ormai “freddo”, in bella mostra sul letto furono trovate divise dell'Alitalia, documenti falsi e molto altro materiale.
Fin troppo plateale era la disposizione di questi oggetti nell'appartamento, tanto plateale che sembrò un messaggio diretto alle BR più che una vera scoperta casuale.
Due ipotesi si profilarono immediatamente all'orizzonte: la prima che i servizi segreti avessero voluto far sentire il fiato sul collo ai brigatisti per costringerli a instaurare una trattativa, la seconda che addirittura gli stessi servizi segreti avessero volontariamente rallentato la scoperta del covo di via Gradoli, perché una irruzione violenta non avrebbe garantito di poter recuperare con sicurezza i documenti che Moro aveva prodotto. Entrambe le ipotesi erano valide.
 
Le BR già da qualche giorno avevano cambiato strategia e possiamo immaginare che il dover abbandonare la base di via Gradoli per non essere individuati, avesse fatto molto riflettere i brigatisti su quanto vicino potessero essere arrivati i servizi segreti.
Il falso comunicato n. 7, quello che fu denominato "prova generale" per verificare lo scenario di impatto della morte di Moro sull'equilibrio del Paese, fu senz'altro un ulteriore messaggio che i servizi segreti volevano mandare ai brigatisti: “guardate che vi stiamo addosso e la morte del prigioniero non provocherà l’effetto che voi vi attendete”.
 
Le BR risposero qualche giorno dopo, il 20 aprile, con il vero comunicato n. 7, a cui allegarono una foto di Aldo Moro vivo e con in mano il giornale La Repubblica del 19 aprile.
Nel comunicato inserirono la richiesta di liberazione di 13 terroristi, consapevoli dell'impossibilità di una risposta positiva da parte del governo.
Insomma le BR avevano abbandonato la strategia iniziale: il processo a Moro non aveva rivelato nulla di quello che attendevano, politicamente era stato un fallimento.
L'enormità della richiesta delle BR non significava che non sarebbe stato possibile arrivare, con la trattativa, allo scambio uno a uno, come lo stesso Moro auspicava. Ma qualcosa accadde e qualcos'altro non accadde affinché il sequestro si potesse concludere positivamente.
 
Siamo ormai verso l'epilogo: il 29 aprile i brigatisti portarono a Moro un ritaglio di giornale che conteneva una lettera dei familiari.
Moro scrisse: "La pietà di chi mi recava la notizia, ha escluso i contorni che dicevano la mia condanna".
"Gli uomini delle Brigate Rosse", come li definì Paolo VI, cercavano di non far leggere a Moro notizie negative per lui e per la sua sorte. Qualche giorno più tardi la parola "pietà" entrò nel vocabolario del sequestro, insieme alla parola "verità".
Il Presidente capì che nulla più sarebbe stato fatto per la sua salvezza da parte del suo partito, che ogni speranza di instaurare una trattativa era perduta.
 
Qualche giorno prima, il 25 aprile, in una lettera pubblicata dai giornali, alcuni amici di Moro, dichiararono che nelle parole della missiva recapitata a Zaccagnini non avevano trovato il Moro che avevano conosciuto.
Tra i firmatari anche l'Arcivescovo Pellegrino, illustre esegeta di Sant'Agostino.
Scrisse Sciascia, concentrando in poche parole tutta la tragedia di Moro: "ora che [il cardinale Pellegrino] dovrebbe conoscerlo, riconoscerlo, non abbandonarlo, non lasciarlo "uomo solo" di fronte alla morte, la tremenda morte che gli viene da altri uomini, ora, il cardinale-arcivescovo, rifiuta di avvicinarsi a lui, lo rinnega".
Altri subirono altrettanta tragica rinnegazione nell'ora del bisogno e della condanna.
 
A quel punto Moro si lasciò alle spalle l'ultimo ponte, per sempre. In un lettera del 27 aprile scrisse disperatamente: "...questo bagno di sangue non andrà bene né per Zaccagnini, né per Andreotti, né per la DC, né per il Paese: ciascuno porterà la sua responsabilità.
Io non desidero intorno a me, lo ripeto, gli uomini del potere. Voglio vicino a me coloro che mi hanno amato davvero...
"
Nell'angoscia del momento Moro si liberò, come per una rivelazione, anche dell'ultimo legame con il potere e con i suoi uomini che aveva creduto amici. Ne riconobbe la maschera beffarda e crudele, se ne spogliò della forma per entrare tragicamente nella vita.
 
Scrisse Moro nell’ultima lettera al segretario del partito Zaccagnini, non recapitata e trovata solo nel 1990: “…anche se la lotta è estremamente dura, non vengono meno mai, specie per un cristiano, quelle ragioni di rispetto delle vittime innocenti”.
E qualche riga più avanti: “Voi invece siete stati non umani, ma ferrei…avete rotto con la tradizione più alta della quale potessimo andare fieri”.
Ed è chiaro che Moro si riferiva ai valori di pietà e umanità che avrebbero dovuto essere il fondamento di un partito che si diceva cristiano. Insomma, proprio la pietà, la pietà cristiana, mancò negli uomini che più ne dovevano avere.
 
Nello stesso giorno, il 27 aprile, Moro scrisse anche al compagno di partito Misasi per esortarlo a prendere parola di fronte ai suoi amici di partito.  Aveva ancora qualche minima speranza. Suggerì a Misasi il discorso da tenere: "Quello che io chiedo al partito è uno sforzo di riflessione in spirito di verità. Perché la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall'altra parte un atomo di verità ed io sarò comunque perdente."
 
Queste parole, che già aveva usato in occasione di un discorso al partito del 28 febbraio 1978 per convincerli della linea di avvicinamento da seguire nei confronti del Partito Comunista, sono una richiesta di riferimento forte ai valori umani fondanti di un partito come la DC. Più avanti scrisse ancora: "Ma la verità è la verità", come a dire che nonostante le mistificazioni nei suoi confronti, la limpidezza della verità delle cose che andava dicendo e chiedendo ai suoi amici di partito era cristallina e incancellabile.
 
Ma il governo rispose: "L'invito al governo rivolto dalla DC, di approfondire il contenuto della soluzione umanitaria adombrata dal PSI, avrà un seguito in una riunione del Comitato interministeriale per la sicurezza che avrà luogo nei prossimi giorni. Si osserva tuttavia fin d'ora che è nota la linea del governo di non ipotizzare la benché minima deroga alle leggi dello Stato e di non dimenticare il dovere morale del rispetto del dolore delle famiglie che piangono le tragiche conseguenze dell'operato criminoso degli eversori".
Così il governo Andreotti: debole con i forti e forte con i deboli.
 
Il 9 maggio il tragico finale: dentro una R4 rossa, in via Caetani a Roma, a metà strada tra la sede della DC e la sede del PCI, venne ritrovato il cadavere di Aldo Moro, colpito da 12 proiettili, 11 sparati con una mitragllietta e uno solo da una pistola. Finì così la vita di un uomo che aveva partecipato del potere, che negli ultimi giorni di vita aveva lottato strenuamente per sopravvivere ma, uomo solo e abbandonato, era morto con grande dignità umana.
 
La commissione Moro, istituita dopo la morte del Presidente della DC, arrivò a numerose conclusioni tra cui il convincimento che una trattativa segreta tra Brigate Rosse e servizi segreti ci fosse stata per il recupero dei nastri dell'interrogatorio, dei documenti del memoriale e delle lettere non recapitate.
Anche se i brigatisti negarono, tutto tende verso questa interpretazione. Quello che non torna ancora è come mai si decise per la morte del prigioniero, quando lui stesso era convinto fino a pochi giorni prima della fine, di poter tornare libero, come si evince dal memoriale nelle sue ultime pagine. Ed è ancora più strano se si pensa che Moro libero sarebbe stato nettamente più destabilizzante, e quindi pro BR di quanto lo fu invece da morto.
 
Tutto sembra dire che la morte di Moro fosse conveniente per molti.
Nell'ottica della strategia della tensione che era stata messa in atto dal "69 in poi, questa morte eccellente, così d'impatto sull'opinione pubblica, avrebbe potuto portare il sistema verso quella deriva autoritaria che alcuni poteri deviati dello Stato auspicavano. Dal punto di vista del potere costituito, che in qualche modo si era stabilizzato per effetto del rapimento su un certo compromesso di “solidarietà nazionale”, il ritorno di Moro alla politica sarebbe stato elemento pericoloso e destabilizzante.

Questa storia amara, il momento più dirimente di tutta la storia repubblicana del nostro paese, si concluse tragicamente. Malgrado tutto, Moro si congedò dal mondo con parole toccanti e di speranza cristiana: "Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo".
 
Leretico
 


Commenti:
ID30225 - 18/03/2013 12:25:48 - (Aldo Vaglia) -

I poveri brigatisti, arroganti e tronfi della loro idea unica, (molto piu' pericolosa della mancanza di idee) sono stati infiltrati e usati fin dal primo momento della loro formazione. Il nucleo storico Curcio-Cogol aveva gia' il suo bravo infiltrato in Frate Mitra, non c'e' piu' dalla Chiesa a raccontarci il motivo per cui sia stato bruciato subito, quando si poteva chiudere immediatamente con il terrorismo. Anche nell'affare Moro, Moretti e' sempre stato una figura ambigua. Quanto invece fossero in grado di contare la criminalita' organizzata ed i servizi sergreti americani e di conseguenza quelli italiani sul terrorismo nostrano, si scoprira' in seguito con il rapimento Cirillo e Dozier; quando i terroristi pensando di essere autonomi ed emancipati fanno scelte che cozzano contro chi tira i fili decretano la propria fine. Anche oggi molti hanno interesse a che l'Italia non esca dal pantano in cui e' immersa, i radicalismi e gli estremismi hanno sempre fatto il gioco della

ID30226 - 18/03/2013 12:27:17 - (Aldo Vaglia) -

restaurazione

ID30235 - 18/03/2013 14:28:12 - (Dru) - Questa storia o suo scorcio

Può dirci molto di come si svolgono gli affari del nostro pianeta ultimamente, e pensare che la strategia della tensione siano fantasie è illudersi che il mondo è come non è, contraddittorio appunto.

ID30264 - 19/03/2013 06:38:46 - (vanpelt) - Se non lo avete già letto ....

... leggete "Doveva morire" di F. Imposimato (ed. Chiare lettere)

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