05 Settembre 2012, 16.00
Filosofia

Viver bene non cercando di risolvere la sofferenza

di Alberto Cartella

Patendo da un pensiero di Blaise Pascal, la riflessione del filosofo saretino Alberto Cartella gira intorno all'intrinseca fragilità umana e alla sofferenza come capacità di gettare un nuovo sguardo sulle cose, prendendo ad esempio il caso limite dell'anoressia

 
Blaise Pascal (filosofo e matematico del ‘600), il quale scrive meglio di molti romanzieri contemporanei, in uno dei suoi 'Pensieri' ha scritto queste parole: «La nostra condizione ci rende incapaci sia di conoscere con piena certezza come di ignorare in maniera assoluta. Voghiamo in un vasto mare sempre sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci vacilla e ci lascia e se lo seguiamo ci si sottrae, scorre via, fugge in un’eterna fuga. Nulla è fermo per noi, è questo lo stato che ci è naturale, che tuttavia è il più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile, una base sicura per edificare una torre che si innalzi all’infinito, ma ogni fondamento scricchiola e la terra si apre sino agli abissi».
 
Anche attraverso la sofferenza e la frattura si comincia a guardare il mondo in maniera diversa.  Per esempio il caso limite dell’anoressia non è niente di cui ci debba vergognare. Se ne parla, si pensa che sia legata a una certa immagine del corpo, si pensa che sia legata anche a una forma di capriccio; invece è qualcosa di molto più complicato.
 
Dietro l’anoressia c’è una sofferenza profonda, c’è la volontà di corrispondere esattamente alle aspettative altrui. Inconsapevolmente si viene assaliti dal senso di colpa e il mondo diventa piccolo.
 
Il corollario dell’anoressia non è solo la perdita di peso, ma è anche la perdita di ogni speranza. Non sono solo le macerie del corpo, sono le macerie della vita. Il mondo diventa piccolo perché è senza speranza. Diventa un mondo dominato dal dovere e a un certo punto questo dovere è talmente tanto grande che non c’è più nessuna gioia e quando accade ciò si vuol morire. Il modo per liberarsi da questo peso che è la vita diventa smettere di vivere.
 
Essere sempre all’altezza di determinate aspettative è un atteggiamento che può portare a vivere molto male o al limite a gravi psicopatologie, delle quali l’anoressia può essere un esempio. Si vuole essere invincibili, più forti di qualunque cosa. Ciò che si ha o si è non basta, si vuole sempre di più e subentra l’insoddisfazione; si vuole esser sempre pronti, in prima linea, sempre presenti ad assumersi ogni fardello.
 
Si cerca di andare sempre al di là dei limiti di ciò che ci avvolge. Credere che basti volere per potere è una fede che si trasforma in tormento. Quest’ultimo consiste nel far di tutto per ottenere quello che si considera essere l’obbiettivo in una corsa folle e disperata che dopo un po’ ci lascia con un pugno di polvere in mano.
 
Quando si dimentica se stessi, il proprio corpo, ovvero quando subentra l’oblio della natura, quando ci si dimentica il fatto che siamo delle persone fragili, che ci si può stancare, che si può avere otto invece di dieci, si può non avere un trenta; questa dimenticanza costituisce l’anticamera dello stato depressivo.
 
Ci si trasforma in aguzzini di se stessi. Il corpo non ce la fa, non si ha più voglia di nulla.  «La vita è un pendolo che oscilla fra dolore e noia» (Schopenhauer) quando non si hanno le parole per esprimersi. È un problema di parole, anche se non è legato al numero di parole di cui disponiamo, perché le parole a cui si sta facendo riferimento sono parole non disponibili ma balbettate.
 
Un corpo magro è un pugno nello stomaco per le persone che lo vedono, però è un modo di dire quello che non si riesce a dire altrimenti, è un modo di manifestare la sofferenza quando le parole mancano, perché ci sono certe parole che non si ha il diritto di pronunciare. Per esempio l’espressione “non ce la faccio†non è contemplata nel vocabolario di un’anoressica; non si può non farcela, si deve andare avanti nonostante tutto.
 
Di fronte a questo corpo che non ce la fa più c’è il crollo di tutto. Il fondo lo si tocca quando si comincia una terapia, perché con la terapia si va a toccare il sintomo. Il sintomo, l’anoressia, il controllo del cibo, il controllo della propria immagine, la propria debolezza, quello che gli altri pensano di me, è un modo per proteggersi e se lo si tocca troppo velocemente si apre il baratro, il vuoto e non si ha più questa difesa del controllo e a quel punto si rischia di precipitare.
 
Al di là dell’esempio dell’anoressia capita di incontrare persone che hanno dedicato la propria vita al perseguimento di determinati obbiettivi (che magari hanno anche raggiunto), che però sono segnate da una profonda infelicità e questo perché costoro hanno tutto ma non hanno niente; hanno tutto da un punto di vista esterno, ma non c’è gioia.
 
Il mio obbiettivo può essere quello di fare molti soldi o se non li ho di tagliare il telefono fisso per avere i cento euro in più che permettono di avere la cifra per andare in crociera (dico questo perché è una cosa che ho sentito in questi giorni) o per fare il turista; questi obbiettivi si possono anche raggiungere ma poi subentra il vuoto, il quale smette di essere parte di noi ed inizia ad essere tutto ciò che abbiamo, perché si inizia a volere sempre di più, si pensa sempre al dopo, al futuro.
 
Tornando all’esempio dell’anoressia, con la psicanalisi non improvvisata (una psicanalisi che è sempre in due e in cui i due si trasformano reciprocamente) si comincia a trovare le parole, a spostarsi; si fa un passo accanto alla sofferenza, non perché la sofferenza evapori o perché si stia bene, ma si sta male come chiunque altro.
 
Nell’anoressia si è in uno stato depressivo in cui il vuoto è tutto e si sta troppo male. Se si elimina il troppo e le cose vanno più o meno bene, rimane il finitamente vuoto che è la depressività, la quale è costitutiva di ognuno di noi. Si sprofonda quando si cerca di risolvere questa depressività costitutiva. Per non sprofondare da questa depressività si tratta di imparare a capire le cose che ci circondano, gli attimi di gioia, quella che è lì e che non si poteva vedere prima perché si pensava al dopo, al futuro.
 
Il futuro non va pensato altrimenti si ricade nel vuoto, infatti come sostiene Niels Henrik David Bohr (fisico danese, premio Nobel per la fisica, morto nel 1962) “fare previsioni è una cosa molto difficile, specialmente se riguardano il futuro". Si sta parlando qui di qualcosa che porta pian piano a riconoscere quello che si è, ad accettare il fatto che non tutto va bene e che siamo fragili facendone un punto di forza.
 
In fondo, la fragilità permette di sentire cose che gli altri non sentono, perché quando non si è fragili ci si chiude a chiave e si attraversa il mondo, mentre quando si ha questa fragilità il mondo diventa fecondo di potenzialità da condividere con altri. Non si può pretendere che siano gli altri a cambiare e bisogna essere consapevoli che per quanto riguarda il problema dell’anoressia c’è sicuramente una vittima ma non c’è un colpevole, perché i genitori a loro volta hanno una storia.
 
Quando c’è una vittima bisogna fare in modo di rompere il circolo della ripetizione, non solo per se stessi ma anche per gli altri e per questo ci vuole tanto coraggio. Si tratta del coraggio di rimettersi in discussione vivendo ciò che ci capita.
 
Queste considerazioni sono state rese possibili dal guadagno di pensiero che ho ricevuto da Pierre Fédida (psicanalista francese morto nel 2002), da alcune interviste di Maria Michela Marzano (filosofa e docente italiana, residente in Francia) e da alcune conferenze di Giulio Giorello (filosofo, matematico ed epistemologo italiano) rapportati alla mia esperienza.


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