16 Dicembre 2011, 16.41
Pertica Bassa
Arte&Artisti

Magister della lignea scultura

di Giuseppe Biati

Abele Flocchini, artista-scultore, nasce e vive ad Avenone, antico e nobile borgo della più estesa “Universitas Perticae Vallis Sabbiae”, attualmente “Pertica di Valle Sabbia”.


E’ di preliminare importanza (anche per la storia dell’artista) dire che questa porzione di territorio montano, boscoso ed erto, dolce e roccioso a seconda, abitato da una miriade di “comunelli”, è stato testimone di una ricca e vivace scuola settecentesca barocca, sia per  l’abbondante materia prima (ferro, pietra, legno, ecc.), ma soprattutto per l’ingegno di quegli “uomini ordinariamente sottili, pieni di industria e di vigore”, che hanno portato il nobile patriziato locale e la facoltosa borghesia alle artistiche committenze per abbellire, decorare, arricchire dimore e piazze, chiese e palazzi, canoniche e municipi.
 
Qui una numerosissima schiera di artisti ha fatto trionfare l’arte visiva, materica, che stupisce prima ed emoziona nel contempo: dalle cinquecentesche Vergini, dai volti dolcemente materni, ai floreali trionfi e ai tripudi dei putti delle adorne soase barocche dei Pialorsi di Levrange, dei Bonomi e Flocchini di Avenone, dei Ginamni ed Ebenestelli di Vestone, dei Bertoli di Prato, dei Prandini di Nozza ed altri ancora, come il trentino Baldassar vecchi.
Qui sono sorte le “botteghe d’arte”, autentiche scuole di intaglio ligneo.
 
E’ ancora qui che il bambino Abele, nelle fredde funzioni religiose invernali, nella sua ornata chiesa parrocchiale di S. Bartolomeo, ammira e rimira, “principia” a capire quelle maestose ancone barocche, ricche e sinuose, monumentali e scenografiche, spettacolari nella tipica teatralità del secolo d’oro, il Settecento.
E’ affascinato da quelle potenti coppie di “mori”, studiati anatomicamente, dal florilegio dell’intaglio, dalle statue allegoriche che sostituiscono intere colonne, decorate a girali, intrecciate a puttini e sirene, fra spezzoni di timpano manieristico, dove angeli riverenti additano l’Unico Padre Eterno.
Abele ne coglie (e la farà sua) la potenza, non tanto il ridondante influsso lasciato a quell’epoca espressiva.
Sì, perché l’estrema libertà, che ti offre un materiale così povero come il legno, cozza con la maniera obbligata della copia, rassicurante e appagante per i soli principianti.
 
Abele passa presto dalla bottega come artigianalità, piacevole, più o meno elevata di prodotti artistici, che potremmo definire di massa  (la produzione esteticamente  gradevole di segugi, di prede, di bassorilievi scenografici di caccia, ecc.) ad un “cambio di mano”, preceduto dal  concetto che potesse vantare valenze euristiche e, di conseguenza, artistiche.
E qui sta tutto l’Abele di oggi, artista-ricercatore, tumultuoso, talentuoso e volubile.
 
La sua produzione mal sopporta gli stili: è alla ricerca di un linguaggio plastico disincantato, disancorato dalla tradizione figurativa, lontano dalla arcigna monocromia dei grandi soggetti celebrativi dell’arte ufficiale.
Il suo è un linguaggio delicato ed ingenuo quando tratta perlopiù temi agricoli-montanari e paesistici d’ambiente valligiano, con una scultura in punta di scalpello, volutamente giocata su gamme vaporose e vibratili, caratterizzata da un tratto fortunatamente infantile ricollegantisi al primitivo gusto della vita.
 
Così sono le sue contadine, con forca e gerla, carpite al legno per diventare delicato sentimento arcaico e convinto moto di lavoro.
Ma diviene linguaggio possente e simbolico quando la sua predilezione va sugli elementi della natura: queste teste di cavallo, che sembrano in qualche caso dei blocchi di bronzo dalla forma potente, in torsioni drammatiche, esprimono l’idea del prodigio, come figure impegnate in cruente prove terrene: cercano “spazio” e invece “cadono”, come michelangioleschi prigioni, nella terrestrità, domi e puniti: vere e proprie creature epiche e culturali.
Qui sta anche tutta la sempre presente e dichiarata insoddisfazione dell’artista di fronte ad ogni sua opera: è “un perché non parli!” e “un lancio contro di scalpello”, come suo credo in una scultura di un dicotomico linguaggio, come possibilità e come inadempienza, come ripensamento e ripiegamento su se stesso e sui suoi percorsi.
 
A volte, pur nella indubbia e riconosciuta abilità tecnico-artigianale, il rigetto dell’opera è totale: vi è la rimeditazione dell’idea di forma, in una incessante ricerca della figura, animale o vegetale o umana, modellata attraverso una forte sensibilità alla luce, allusiva alla fragile condizione esistenziale.
Poi, appaiono i molteplici nudi femminili, tutt’altro che lacerati, rotondeggianti e carnosi, ingannevolmente boteriani, intagliati e smussati nell’abbondante e bombato legno, in sinuose torsioni, quasi opere surrealistiche, metafisiche: tensioni espressive della materia, che si contorce e si raggruma, imprimendo alle sculture, vivi e spirituali, effetti dinamici.
 
E’ una “natura naturans” quella di Flocchini, generatrice di vita e di emozioni, che porta con sé profonde implicazioni filosofiche ed estetiche, cui non sono affatto estranee le tensioni esistenzialistiche e personali.
A tal punto da estendere questo suo ferma impostazione nella creazione, nello sviluppo, nell’incentivazione di “botteghe”, come “scuole”, acquisizione altamente sociale, ricca di meriti e di significati trasmissivi.
Dove vi è un “maestro d’arte” vi sono alunni che apprendono, che si “alimentano”, che crescono nell’espressività, nella tecnica, nella capacità interpretativa di un mondo esteriore, ma spesso e appropriatamente interiore.
 
C’è una plastica immagine (nelle innumerevoli opere di Abele), quasi un simbolo, che definisce al meglio questa sua impresa culturale.
E’ l’opera del “magister” Flocchini dal pregnante titolo: “Il lascito”, (scultura esposta permanentemente nel piccolo borgo di Spessio di Avenone) come rappresentazione lineare, pulita, scolpita, del mantello, avuto dal bisnonno, dal nonno, dal padre.
Il mantello, come “lascito”, tra memoria e dovere di trasmissione.
Il “lascito” non è una semplice eredità; il “lascito” è registrato, è un “legato” notarile, di grande pregnanza per le doverosità che contiene e che impone.
E’ ricevere da chi viene prima per continuare con chi viene dopo.
 
E’, anche e  soprattutto, la concreta filosofia di Abele Flocchini, artista-scultore della Val Pertica, che carpisce al legno la nascosta potenza espressiva del sentimento e del moto, provocando arcaiche emozioni.
Il legno, materia duttile, semplice elemento, dall’agile scalpello guidato dalla mente, fa emergere forti messaggi, ideali simboli, plurime forme di creatività, magiche opere.
Per Abele Flocchini sono tutti questi tratti che, anche solo semplicemente addizionati, da artista e da persona, ravvivano le sue speranze.

Prof. Giuseppe Biati
Avenone di Pertica Bassa, nell’aprile 2011
 


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