09 Marzo 2007, 00.00
Valsabbia - C
Integrazione

Operai extracomunitari e delegati sindacali

Ecco la storia dei due operai extracomunitari che lavorano in Valsabbia. Diop Oumar Cheikh, 38 anni, originario del Senegal, e Sanogo Sekou, 45 anni, della Costa d’Avorio.

«La libertà! Quanto deve amarla, l’uomo, se è disposto a sopportare tutto per averla». È una frase che leggiamo nel romanzo Il sospetto dello svizzero Friedrich Dürrenmatt (1921- 1990).

Si può poi discutere a lungo a proposito di cosa sia effettivamente la libertà. Ma certo non si può scindere questo concetto dalla dignità che consegue dall’avere un lavoro. E allora si parte, senza una meta precisa, o meglio senza sapere a cosa si va incontro, pronti a qualsiasi sacrificio pur di riscattarsi da una condizione di profonda difficoltà.

È questa la storia dei due operai extracomunitari che abbiamo incontrato in Valsabbia. Diop Oumar Cheikh, 38 anni, originario del Senegal, è arrivato in Italia 17 anni fa e oggi lavora alla Pasotti di Sabbio Chiese. Sanogo Sekou, invece, 45 anni, arriva dalla Costa d’Avorio, e lavora alla Fondital di Vobarno. Entrambi, nelle rispettive fabbriche, sono delegati sindacali della Fim.

«Il mio percorso è molto lungo - racconta Diop - e inizia in Senegal, dove lavoravo in un’agenzia di commercio». Lo stipendio è basso, la povertà diffusa. I primi racconti dei senegalesi che lavorano già in Italia, intanto, cominciano a creare un mito: lavoro, sicurezza di vita, tutela, in una parola autentica libertà. I più coraggiosi non hanno esitazioni e decidono di partire. Tra questi, nel 1990, c’è Diop.

Prima arriva in Francia con l’aereo (perché ha il visto per entrare nel Paese transalpino), poi decide di raggiungere il vero obiettivo: l’Italia. Come? Attraversando le Alpi clandestinamente. «Sapevamo che c’era lavoro - spiega - perché l’Italia si trovava in una fase di espansione economica». Un amico senegalese porta Diop e Prevalle, lo ospita e lo aiuta a cercare un lavoro. Ma Diop è clandestino e trova solo un piccolo impiego in nero, a Odolo. Il vero riscatto arriva grazie a una sanatoria che consente al senegalese di ottenere il permesso di soggiorno e di iniziare a cercare un lavoro fisso.

Dal 1994 Diop è alla Pasotti, prima a Prevalle e ora a Sabbio.
Una storia in parte diversa, quella di Sanogo. In Costa d’Avorio è stato prima contadino, poi ha lavorato in uno zuccherificio come operaio. «Non guadagnavo abbastanza - ci racconta - e non avevo garanzie. Ho deciso di partire e rischiare, ma la vita è tutta un rischio». Arrivato a Roma, Sanogo si trasferisce successivamente a Palermo dove vive alcuni anni svolgendo lavori saltuari (non sempre ben pagati e rigorosamente in nero).

Nonostante le difficoltà e i momenti di amarezza, Sanogo non ha mai pensato di tornare in Costa d’Avorio (e anche questo è un dato che ci fa riflettere). Non è difficile capire il motivo, se si osserva la situazione in prospettiva. Tornare a casa voleva dire sconfitta certa. Restare significava lottare per la vittoria. Che alla fine è arrivata, anche se non subito. Sanogo, arrivato nel Bresciano grazie ad alcuni amici che lo avevano convinto delle possibilità di trovare un lavoro fisso, è rimasto coinvolto nel fallimento di un’azienda valsabbina e infine, anche grazie alla Fim, è arrivato a Vobarno, alla Fondital.

Dopo alcuni anni di lavoro, i due operai sono diventati delegati sindacali nelle loro fabbriche, assumendo quindi un ruolo importante di rappresentanza. «Mi sono chiesto cosa potevo fare per migliorare la situazione del lavoro nella nostra fabbrica - dice Diop - e mi sono presentato alle elezioni. Oggi svolgo un ruolo difficile, in cui spesso registro i rischi di incomprensione. Quello che è importante è che io mi sento delegato di tutti e non solo degli stranieri».

Un lavoro, un ruolo nel sindacato, una vita sociale che denota un’ottima integrazione. Per essere veramente felici mancava la famiglia: Diop e Sanogo hanno così operato il ricongiungimento familiare e oggi vivono in Valsabbia con la moglie e i propri figli (Diop ne ha due, Sanogo cinque). L’ivoriano ha anche comprato casa, e oggi paga regolarmente il mutuo.

Ma Brescia, che oggi rappresenta per Diop e Sanogo un luogo in cui poter realizzarsi nel lavoro e con la propria famiglia, non sarà comunque il punto di approdo finale dei due operai extracomunitari. «Quando avremo maturato i requisiti per la pensione - dicono con un sorriso sulle labbra che testimonia la nostalgia per il Paese d’origine - torneremo in Africa, perché con i soldi messi da parte avremo la possibilità di avviare piccole attività nel nostro Paese. L’Africa possiede molte risorse, ma per poterle utilizzare occorrono capitali iniziali che pochissimi hanno». E i figli? «Resteranno qui - spiegano - perché ormai sono italiani a tutti gli effetti e sono inseriti nella vita sociale di questo Paese».

Un concetto che Diop spiega con parole ancora più chiare: «Il mio obiettivo è raccogliere una somma di denaro sufficiente per comprare la terra che era di mio nonno». E qui si comprende davvero il senso di questi «viaggi della speranza». Un senso che non è dato da una freccia, ma da un cerchio: partire per tornare, per riconquistare ciò che un tempo era della famiglia. Partire schiavi (della povertà, della mancanza di infrastrutture, della sofferenza fisica e morale) per tornare, un giorno, liberi, in grado di contribuire a migliorare le condizioni di vita dei propri connazionali. Proprio la speranza di questa libertà (per noi non sempre comprensibile) rende possibile superare tutte le difficoltà che derivano dal solcare il mare.

Guido Lombardi
Da Giornale di Brescia


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