26 Settembre 2009, 12.55
O
A Roma

Asciugamani d'oro

Il Cavaliere invita gli italiani a consumare di piů? Detto fatto, al Senato consumano e chiedono un aumento della dotazione pari all'1,5%

 
Per le stanze della presidenza a Palazzo Giustiniani, ad esempio, hanno appena comprato 50 asciugamani deluxe. A 88 euro l’uno. Pari a tre giorni di cassa integrazione di un operaio metalmeccanico. Totale: 4.400 euro.
Giorgio Napolitano, che giovedì aveva spronato tutti dicendo che «le istituzioni devono dare l’esempio» ha avuto la sua risposta.
Vi chiederete: ma di che materiale so­no mai fatte, queste salviette per le ma­ni, per costare una cifra che all’italiano medio appare spropositata?
Sono di li­no. E ricamate.
 
Direte allora che sul sito e-bay.it si possono comprare asciuga­mani di lino e ricamati al prezzo di 29,99 per una confezione da sei e cioè a cinque euro l’uno, venti volte di meno. Per non parlare di quelle di spugna.
Co­nosciamo l’obiezione: il decoro delle toilette di palazzo Giustiniani esige ben altro.
 
Esattamente come le cucine presi­denziali: non meritano forse una quali­tà adeguata al livello dell’istituzione per essere all’altezza delle raffinate pa­pille gustative di Renato Schifani e dei suoi ospiti?
Ecco allora una spesa asso­lutamente in-dis-pen-sa-bi-le: un co­stoso corso di perfezionamento fatto se­guire presso la scuola culinaria del Gambero Rosso ai 9 (nove) cuochi in­terni.
Così che possano poi scodellare sui prestigiosi deschi quei piatti griffati che, con innata modestia, vengono defi­niti «divine creazioni»: bauletti con ri­cotta e pistacchi con bottarga di tonno e sedano, intrighi con stracotto d’oca e burro al ginepro, quadrelli di cacao con scorzette d’arancia ai due ori…
 
Per carità, negare che nella scia delle polemiche sui costi della politica, qual­che taglio sia stato fatto pure a Palazzo Madama sarebbe ingiusto. Le famose agendine 2009 di Nazareno Gabrielli co­state la bellezza di 260 mila euro (più de­gli stipendi annuali dei governatori del Colorado, dell’Arkansas, del Tennessee e del Maine messi insieme) sono state ad esempio sforbiciate, per il 2010, del 20%.
Un sacrificio doloroso ma necessa­rio.
Come ancora più dolorosi e necessa­ri sono stati il blocco delle indennità, il giro di vite ai contributi dei gruppi par­lamentari e altro ancora...
 
Eppure, pare impossibile, nonostan­te i tagli palazzo Madama si appreste­rebbe a battere ancora cassa. Ancora po­chi giorni e il 30 settembre scade il ter­mine entro il quale gli organi costituzio­nali devono presentare al Tesoro le ri­chieste per la dotazione finanziaria del 2010.
Una data importante, tanto più dopo gli ultimi appelli lanciati, alla vigi­lia di un autunno che potrebbe essere critico, non solo del capo dello Stato ma anche del cardinale Angelo Bagna­sco: misura e sobrietà.
Fino a due o tre anni fa gli stanzia­menti degli organi costituzionali veni­vano adeguati con il giochetto del co­siddetto «pil nominale». Si prendeva cioè a riferimento la crescita economi­ca prevista, che di norma era più o me­no il doppio dell’inflazione, e ogni an­no la dotazione cresceva di quel tot. In seguito, sull’onda delle polemiche, le pretese si ridimensionarono al «sempli­ce » recupero dell’inflazione program­mata.
Come è stato fatto l’ultima volta.
 
Poi la crisi economica ha cominciato a mordere davvero, al punto che se si fos­se applicato stavolta il vecchio criterio del «pil nominale», gli stanziamenti sa­rebbero crollati del 5%. Una batosta in­sopportabile.
Ma mentre Quirinale e Ca­mera decidevano di rinunciare per i prossimi tre anni al recupero dell’infla­zione programmata, dal Senato non è arrivato alcun segnale. Evidentemente palazzo Madama considera ancora vali­da la richiesta relativa al 2009, con un aumento della dotazione pari all’1,5% sia per il 2010 sia per i due anni succes­sivi.
Il Tesoro dovrebbe così versare nel­le casse della camera alta 527 milioni di euro contro i 519 del 2009. Per salire poi a 535 e 543 milioni nel 2011 e nel 2012.
Qualche goccia nel mare immen­so del bilancio statale. Ma talvolta ba­sta qualche goccia a far traboccare il va­so.
Soprattutto considerando che l’infla­zione programmata è almeno il doppio di quella reale.
 
Come si giustifica allora l’esigenza di maggiori risorse per otto milioni l’an­no?
Forse con il progetto di realizzare un nuovo canale televisivo digitale ter­restre (oltre a quello satellitare già esi­stente) affidato a un comitato istituito il 29 luglio e coordinato dal questore Benedetto Adragna? O con l’idea, ben più fumosa, di impiantare una struttu­ra medica interna con tanto di sala di rianimazione pur essendo palazzo Ma­dama a un chilometro dall’ospedale Santo Spirito?
 
La verità è che l’andazzo seguito per anni è stato tale (nella legislatura 2001-2006 le spese correnti s’impenna­rono del 39% oltre l’inflazione) che la «macchina» lanciata verso costi sem­pre più folli va avanti per inerzia, a pre­scindere perfino dalla volontà di Schifa­ni e dei questori.
Tanto è vero che, non essendo mai stati cambiati sul serio cer­ti automatismi del contratto interno, le retribuzioni e le pensioni dei dipenden­ti (che in molti casi possono ancora an­darsene a 50 anni: tre lustri dopo la ri­forma Dini!) seguitano a crescere pe­sando immensamente di più che gli asciugamani.
Dati alla mano: le pensio­ni medie variano dai 122 mila euro lor­di l’anno per i commessi ai 325 mila eu­ro per i funzionari.
 
Una domanda, tuttavia, meriterebbe risposte convincenti. Perché il Senato continua a chiedere soldi se ha deposi­tati presso la filiale interna della Bnl, li­quidi, 108,9 milioni di euro? Avete capi­to bene: 108,9 milioni.
Da dove arriva­no tutti quei quattrini è presto detto: palazzo Madama non spende, nella real­tà pratica, tutti i soldi che ogni anno il Tesoro gli dà. Il bilancio si chiude infat­ti regolarmente con avanzi di cassa che non vengono restituiti all’Erario, ma si accumulano in banca.
Lo stesso avvie­ne, e in misura addirittura maggiore, per la Camera dei deputati, che ha già da parte qualcosa come 380 milioni di euro. Il «tesoretto del Parlamento», per usare la definizione data dal Sole24ore lo scorso maggio, avrebbe quindi rag­giunto, secondo gli ultimissimi calcoli, circa 490 milioni.
 
Il doppio dei fondi oc­correnti per rimettere in piedi le strut­ture universitarie dell’Aquila e pagare le rette di tutti gli studenti.
La Camera si tiene stretti quei soldi con la giustificazione che alla scadenza degli onerosi contratti d’affitto degli uf­fici per i deputati nei «Palazzi Marini» (una quarantina di milioni l’anno) do­vrà acquistare nuovi immobili.
Ma il Se­nato, che gli edifici li ha già comprati e ha avuto dal Cipe anche i soldi per ri­strutturarli? Ci si dirà che, con le proce­dure e le macchinosità attuali, è diffici­le restituirli, i soldi. Sarà…
 
Eppure c’è un illustre precedente.
Alla fine degli an­ni Novanta l’Antitrust, all’epoca presie­duta da Giuseppe Tesauro, rese al Teso­ro l’equivalente di una cinquantina di milioni di euro: erano gli avanzi delle dotazioni annuali che l’autorità non ave­va speso. E che tornarono così nelle cas­se dello Stato.
Certo, bisogna volerlo...
 
Sergio Rizzo Gian Antonio Stella da Corriere.it


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