14 Febbraio 2020, 07.51
Provincia
Terza Pagina

La leggenda dei santi Faustino e Giovita

di Giuseppe Biati

I santi Faustino e Giovita all’assedio”, da una storia vera ad una fortunata leggenda comunale nel xv secolo.
Di Giuseppe Biati


Quasi a cavallo del XV secolo vi fu il periodo del massimo splendore di Venezia.
Non era più soltanto una potenza marinara, ma aveva esteso i suoi domini nella Pianura Padana, spingendosi ad Ovest, fino all’Adda, e a Nord-Est fino a toccare le Alpi.
Nella patria del “fare”, ma anche del tanto e insopprimibile “ciacolar”, si opponevano da subito due fazioni a questa politica della “villa” o della “terraferma”.
“Lassa star la terra e coltiva el mar” era la tesi più popolare e più accreditata. Ma tant’è, ormai, l’espansione in terraferma era un dato di fatto e andava difeso.
Anche se la terra, in quegli anni, era coltivata a sudore e sangue.

Le povere case dei contadini
erano periodicamente incendiate o saccheggiate da eserciti allupati e feroci; e le vittime nemmeno riuscivano a sapere se, nel frangente, erano amici o nemici.
La fame e la peste, inoltre, si aggiungevano o si alternavano, non chiamate, al flagello della guerra.
Per i giovani, se non volevano ingrugnire sui campi, non restava che un’unica via di uscita: l’industria della guerra mercenaria.
Venivano provvidenziali questi “campagnoli” ai ricchi mercanti e agli abili artigiani di Venezia che non avevano nessuna voglia di battersi in armi per imperi reputati sempre e comunque piccoli.

Con i suoi zecchini e fiorini d’oro
, la Serenissima poteva comprarsi con facilità una milizia di “assoldati”, ex-contadini provenienti dal Friuli, dalla Svizzera, dalla Germania, dall’Olanda.
E quando l’aggressivo duca di Milano, Filippo Maria Visconti, ricominciò ad attaccare i domini della Repubblica Veneta e a stringere d’assedio Bergamo e Brescia, il doge Francesco Foscari “assoldò” appunto un esercito agli ordini di un probo e fedele (rarità per quei tempi) generale: Erasmo da Narni, detto Gattamelata.

L’alba del 1438 era sorta con i rumori di guerra.
Fra due prìncipi vicini, che nel tempo stesso si ingrandiscono, non può sussistere la pace” (Brognoli).
Così era fra Venezia, al colmo della sua floridezza e potenza marinara (3400 tra navi, vascelli e galere), con l’animoso doge Francesco Foscari, e Filippo Maria Visconti, duca di Milano, pieno di ambizione e di sete di ricchezze, che bruciava dal desiderio di ritornare signore di Brescia e del suo ricchissimo e variegato territorio, strappatogli, appunto dalla Serenissima, nel 1427.

Dopo le contese in Romagna con il Papa
, l’irrequieto Visconti, istigati i Carraresi, dopo le alterne alleanze con gli Angioini prima e gli Aragonesi poi, spostò la guerra in Lombardia.
Le ragioni erano soprattutto di conquista e di rivalsa.

La guerra, a quei tempi, era totale impresa dei condottieri, gente dalla vita avventurosa, avidi di bottino e di gloria, bivaccanti o lottatori a seconda delle stagioni, tutti assomigliantisi per smisurata ambizione, coraggio illimitato, forza prorompente.
Oggi smaniosamente fedeli e cerimoniosi, domani impudentemente ribelli e traditori.
La guerra era la loro ragione di vita; se non c’era, la creavano, passando al soldo di uno Stato a quello di un altro con la disinvoltura dell’ingordigia e la bramosia dell’avidità.

Al comando delle truppe di Venezia era il Gattamelata
, forse una nobile e positiva eccezione nell’elenco dei condottieri: coraggioso quanto prudente; astuto ma generoso, assetato di gloria ma non di smodate ambizioni: metodico, regolare, abile nell’arte della guerra.
Nell’assedio di Brescia veleggiava già verso i sessantaquattro anni.
Di fronte a lui, più giovane, al soldo dei Visconti, impetuoso come il turbine, Nicolò Piccinino. Piccolo di statura, smilzo, quasi deforme, con una ineguagliabile resistenza alla fatica; si dice “portasse” nell’odio la stessa furia selvaggia che metteva negli assalti.
Inflessibile con se stesso e feroce con gli altri, non vi erano lacrime copiose o commoventi invocazioni a strapparlo dai suoi piani stabiliti. Vedeva nel terrore, diffuso anche ad arte, un’arma efficace quanto gli assalti furiosi delle sue bande armate: un falco ghermitore, dall’occhio vacuo e roteante, avido ed aggressivo!

L’avamposto per eccellenza di Venezia era Brescia,
appena conquistata e con la quale una pattuizione, tacita ma sicura, dava luogo sicuramente ad un prospero avvenire. Erano anche terminate le feroci lotte intestine fra le nobili famiglie locali, assestatesi in una buona concordia e in una riappropriazione di una dignità civile, come consapevoli “fautori dei propri destini”.

Nella fiera città, ricomposta nella pace interna,
la fama devastatrice di quel demonio di Piccinino aveva scompaginato gli animi; aleggiava una paura al solo pensiero di lui, condottiero d’assalto e di saccheggio, devastatore di interi territori e incendiario di borghi e città.
La città era lì, ai suoi piedi, stesa nel sole come un orientale tappeto, seppure al riparo dei monti, con l’anello murario abbarbicato, tra contrafforti inespugnabili e rivellini superbi.

Il tempo: l’ora tiepida del mese di settembre in cui si vorrebbe fermare il sole pieno, nel vigore di uve e messi in raccolta.
Ma non si aveva tempo di pensare. Occorreva agire subito, rafforzando le mura, scavando profondi fossati, armando la popolazione.
Si distribuirono ai cittadini armi di ogni genere, quali balestre, bombardelli e schioppetti; si raddoppiarono le guardie sulle torri e sulle torricelle delle porte, dalla Pusterla a Mombello, al Roverotto.
Venne costituito un corpo scelto di mille cittadini, pronti ad accorrere “senza strepito” ma con urgenza in qualunque punto della città.
I capi erano quasi tutti di famiglie nobili o di dignità nobiliari snocciolate a buon pro’, ma non mancavano popolani di acume guerresco per la difesa delle tredici torri.
Ed era così che accanto al nobile Avogadro vi fosse un Zucarino bifolco; un Oprandino da Palazzo accanto ad un Giorgio “parolotto”; un Gabriele Lantana accanto ad un Roadino pescatore.

Anche i magazzini venivano stipati di viveri, aumentati i mulini, calmierati, con apposite “provvisioni”, i generi di prima necessità.
Ma i Rettori restavano troppo indaffarati nei loro damascati uffici, tra carte e protocolli, importante impegno in tempo di pace, ma alquanto pregiudizievole in tempo di guerra: allora, dei cittadini, rappresentanti del popolo, “cum suavitate et reverentia” pregarono quei signori di uscire a cavallo per le vie cittadine per “farsi vedere” e rincuorare gli animi.
Si discuteva se far entrare in città l’esercito amico del Gattamelata, per poterla difendere dall’interno; la decisione, unanime, dei capi fu negativa, per motivi di sussistenza, ma anche politici.
Il Gattamelata doveva difendere dall’esterno, perché i cittadini bresciani “semper parati sunt ad sufferendum omnem incomoditatem pro tutela et conservatione Status”.

Frattanto la morsa bellica del Piccinino si andava sempre più stringendo
.
Presa la Franciacorta, caduta la rocca di Montichiari, occupata la Riviera di Salò, attorno a Brescia – dice il Soldo – “per otto miglia non rimase pure un solo cane nelle terre”.
E fra i bresciani chiara era la consapevolezza di essere completamente assediati, quasi crisalide nel bozzolo: “Jam in bussolo clausi sumus”.
Anche perché il Gattamelata, sfuggendo l’accerchiamento dell’esercito del Piccinino, si era ritirato nella direzione di Riva del Garda e del Monte Baldo.
Qualche isolato caso di peste, nel frattempo, faceva la sua orribile apparizione, come ulteriore complicanza.

Erano giorni intensi,
giorni di “provvisioni” a non finire, calme, pacate, senza affanno.
A tutto si doveva provvedere con ordini precisi per la vigilanza, per le opere di fortificazione, per la postazione dei cannoni, la distribuzione delle vettovaglie, lo schieramento dei combattenti.
Il Consiglio faceva delega di pieni poteri a sei “savij di guerra”, nelle persone di Ambrogio Avogadro, Bartolomeo Porcellaga, Balduccio Longhena, Pietro Sala, Cristoforo Bornato e Francesco Martinengo.

Si discuteva in Consiglio anche sul fatto se
mantenere in città o far uscire dalla stessa donne, bambini e mendicanti. All’unanimità prevalse l’opzione di mantenere tutti entro le mura della città, perché  “tutti erano suoi figli, dover tutti o vivere o perire con lei”.
Espellere i poveri, poi, “sarebbe una grande empietà che sopra ogni cosa dispiacerebbe a Dio nelle cui mani sta ogni cosa”.

Nell’attesa dello scontro, il cronista annotava: ”Tutto il popolo notte e giorno lavorava a far ripari di dentro i muri; ma non bastando gli uomini vi lavoravano femmine, putti, donne, preti, frati, giudici tali e quali e stavano serrate le botteghe che pareva ogni dì fosse festa”.
Poi, scendeva quella notte silenziosa e gravida: solo dalle scuderie salivano verso l’alto costone della Pusterla deboli scalpiccii e contenuti nitriti. Con le froge i cavalli istigavano l’aria.

Tra la Pusterla e Canton Mombello
, un esercito di 25.000 soldati, tutto unito, si preparava all’assalto.
Ottanta pezzi di vario calibro aprirono come roboanti tuoni la loro attività con pari risposte bresciane.
Brecce aperte nelle mura e urgentemente richiuse con mezzi di fortuna, terrapieni cancellati e ripristinati con disperata immediatezza.
Fuori dalle mura ebbero a soffrire di fuoco amico le mirabili chiese di S. Andrea, di S. Apollonio e di S. Matteo: sacrificio inevitabile per togliere al nemico ogni riparo.

Così per giorni e giorni,
dal 3 ottobre, la lotta si inasprì, con alterne vicende, con smarrimenti e scoramenti, con riprese d’animo e nuovi incentivi alla disperata, superba difesa.
Ai morti e ai feriti si sostituivano cittadini di ogni estrazione, “sani e robusti”.
La guarnigione di Porta Venezia rimaneva così sempre inalterata nel numero.
Donne, plebee e patrizie, si mescolavano agli uomini: “scorrevan d’ogni intorno le mura portando legna, fascine, terra ed altri materiali atti al riparo”, portavano viveri ai combattenti, soccorrevano e trasportavano i feriti sulle spalle perché “semivivi ed esangui non fossero calpestati nella lotta”.
Ore fitte di grida, di lamenti, bastanti ad insufflare alle spalle intermittenze di orridi silenzi di morte e di fronte nuovi vortici sibilanti di strepiti.

Fu allora che, il 30 novembre, nell’assalto più violento, si vide l’alleato del Piccinino, Talliano del Friuli, uomo di feroci costumi, come il tirar selettivamente di balestra “a donne, a femmine, a pulzelle”, esser fermato da Brigida Avogadro, bella, giovane, forte; nell’improvvisa e saettante galoppata, disarcionò Talliano, terribile ed avvampante, ravvivando nei bresciani l’animo per l’impari lotta: “di bombarde, di verrettoni, di sassi parea che l’aria s’oscurasse; parea che tutto il mondo s’aprisse di tamburi, di trombette, di grida”, di delirio di campane a martello, di un convulso inchiavardare di porte.

Ma fu il 13 dicembre, giorno di S. Lucia, che Nicolò Piccinino e i suoi fecero lo sforzo supremo.
“In tutta quella notte non fecero altro mestiero i suoi bombardieri che tirare”.
Poi avvenne l’urto di massa contro un solo punto delle mura.

La fortuna e il valore aiutarono, però, i bresciani.

Cabrino da Mairano, esperto bombardiere, scompigliò l’orda nemica con un magistrale colpo: “Voi avreste veduto per l’aria arnesi, bracciali, spallacci, celate, elmetti volare con gambe, con piedi, con braccia, con teste intanto che ella (la bombarda) portò fino nel brolo del vescovo elmetti pieni di cervelle”.

“Essendo la difesa popolare, d’ogni sorte d’armi si adoperavano. Da lontano si lanciavano sassi e dardi e bastoni sulla punta abbrustoliti; da presso, oltre le spade dei soldati e le solite armi, si usavano dal popolo picche e mazze e spiedi e ronche e scuri e zagaglie e pugnali e tutto ciò che veniva alla mano di stromenti di offesa di taglio e di punta. Le donne accorse sui bastioni in aiuto gittavano sopra gli assalitori acqua bollente, calce disfatta e liquefatta, pece che entrando nelle fessure degli elmetti, facea ne’ più arditi a montare miserabile strage…”.


Fu tale la resistenza bresciana e lo scompiglio nell’esercito invasore, che Piccinino ordinò la ritirata.
Quasi fosse passato l’erpice della desolazione, svaniva d’un colpo la baldanza della canaglia soldatesca, aizzata, prima della lotta, da un comandante che faceva balenare libertà di saccheggio e di stupro, dilapidazioni e gozzoviglie nei lussuosi palazzi nemici.

Le cronache narrano che grande merito di questa vittoria l’ebbero i quattrocento cavalieri bresciani, guidati da Francesco Barbaro: riuscirono ad aggirare le posizioni dei nemici e a rovesciarsi su di loro con la furia dell’estremo coraggio e dell’eroismo più ardito.
Le azioni belliche terminarono lo stesso giorno di S. Lucia, in un giorno dove l’incipiente inverno giocava prematuramente a sfioccarsi e a incrudire, tra i languori della campagna e nel vezzo di ombre boscose fino alla stagliatura alta del cielo.
La saldezza dei combattenti bresciani, la furia dei cavalieri, la tenacia dei cittadini, la saggezza dei capi, l’entusiasmo delle donne, l’eroismo di tutti furono gli elementi di vittoria.
Ma non solamente.

La notizia di un prodigio fioriva e si sviluppava nel popolo.

Nello squarcio del cielo, nella più vivida ed abbagliante luce, parve di vedere, al battuto Piccinino, nelle loro armi scintillanti, inesorabili come arcangeli, i celesti protettori della gente bresciana, i santi Faustino e Giovita.

E la tradizione orale narra anche che il terribile Piccinino avesse lasciato il campo dicendo di non essere abituato a combattere con i santi.
Sconfitta sicura!
La prospettiva, poi, di una campagna di guerra così importante per i Visconti e così poco redditizia in termini di risultati, non gli lasciava presagire che una misera rendita, lui capitano di gran soldo e di indubbia ventura.
E, si sa, le guerre, senza abbondante oro, normalmente vengono male!
Qui ci misero cuore e mano i cittadini bresciani, protezione e vittoria i loro santi protettori!

(Bibliografia di guida le Cronache del tempo di Cristoforo da Soldo)




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