11 Giugno 2009, 10.24
Vestone Casto O
Epoche

Quando Salvalaggio intervistò Lucchini

Si spento nei giorni sorsi a Roma Nantas Salvalaggio, acuto giornalista e brillante scrittore. In biblioteca a Vestone abbiamo recuperato una sua intervista del 1969 al nostro Luigi Lucchini.

Salvalaggio era nato a Venezia nel 1923, esordì giovanissimo sulle pagine del «Tempo» per approdare poi ai settimanali «Epoca», «Oggi» e ai quotidiani nazionali «Il Giorno» e «Corriere della Sera». Fu anche nel 1962 fondatore e primo direttore di «Panorama», nonché per tanti anni collaboratore Rai.
 
Celebre soprattutto per le sue interviste d’inviato giramondo. Durante la cariera raccolse le confidenze di personalità internazionali del calibro di Marilyn Monroe, Yul Brynner, Ezra Pound e Giuseppe Prezzolini.
 
Nel gennaio del 1969, Salvalaggio intervistò Luigi Lucchini, allora cinquantenne, figura emergente del panorama economico bresciano, per «Il Giorno». Vallesabbianews ha ritrovato questa intervista, che rappresenta un singolare spaccato della società bresciana degli anni Sessanta, nei preziosi album di cronaca valsabbina che il compianto Felice Mazzi donò alla Biblioteca civica di Vestone e la offre ai propri lettori.
 

È maestro elementare e figlio di fabbro, però non sogna la marcia su Roma. Il potere che ha, per il momento, gli basta e avanza.
Quando hai detto Lucchini, a Brescia, hai detto il Padrone delle Ferriere.
Cinquantenne, occhio nero e rapace, agilità di fantino Luigi Lucchini sembra tagliato apposta per smentire tutto quello che di ovvio si scrive sugli industriali.
 
«Si, d’accordo» dice «il tondino è importante. L'acciaio é l'a­nima del progresso. Ma l'erba, il granoturco, il biancospino? ». Contro gli avverti­menti dei suoi collaboratori, ha investito somme enormi in una fattoria modello a 15 chilometri da Brescia, in località Sco­vola. Vengono dall'Est europeo, da Mosca e da Praga, per visi­tarla. Ha un allevamento di tori automatizzato; silos giganteschi per il mangime, in una parola Scovola somiglia a una fattoria dell'Ohio. «Si ricordi, la terra non tradisce mai» riprende «E poi mantiene giovani. Chi non si ferma a guardare un biancospi­no, chi non sa perdere un quarto d’ora ad ascoltare gli uccelli, per me sì è già scritto l'epigrafe. Per me è cadavere».
 
Nel club ristretto dei semidei dell'industria bresciana (i Beret­ta, i Gnutti, i Pasotti, i Pietra) Lucchini è giudicato uno strambo, un visionario. Con grave choc della Banca San Paolo, si è sa­puto che vota a sinistra. Durante le vacanze, a forni chiusi, ha tradotto per diletto le Georgiche.
Ha finanziato giornali di rottura, irriverenti, quando la contestazio­ne non era ancora inventata. An­che nei rapporti sociali rifiuta ostinatamente la banalità. Sotto Natale, per esempio, invece di re­galare agli amici il solito ninnolo o la piantina grassa, ha spedito «un bel mazzo di bistecche na­turali» con tanto di foto a colori del manzo vivo.
La sua trovata ebbe successo. Anche perchè era scoppiato da poco lo scandalo della bistecca drogata, e ogni vera signora sognava la bistecca di un tempo, il «manzo della nonna».
 
Lucchini abita una villa con parco in un largo stradone peri­ferico, viale Oberdan. Mi riceve una domenica pomeriggio, nono­stante un tremendo raffreddore.
Nell'atrio della villa, sotto lo sca­lone di marmo, resto colpito da una vistosa scultura in bronzo: un satiro aggredisce una ninfetta ignuda, con un realismo erotico che sorprende.
Lucchini afferra al volo il mio imbarazzo e con una disarmante franchezza spiega: «Lei capisce, è stato quel prepo­tente dell'architetto. Non ho saputo dire di no. D'altra parte ho visto che ha pure interessato qualche monsignore. Vuol dire che l’arte ha un passaporto di favore». Di Lucchini mi colpiscono le mani, così sottili e delicate, mani da chirurgo. Non riesco a credere che da bambino, nel paese natale di Casto, in Valsabbia, lavorasse il ferro nella fonderia del padre. «Il fatto è che mio padre ha avuto pietà, e m’ha mandato a studiare», dice.
 
«Signor Lucchini, si racconta che a 10 anni lei era un povero diavolo e tirava la cinghia. A 20, per frequentare l'università, cam­pava con qualche supplenza e viveva di pane e cipolla. Dicono anche che, per avere successo, lei ha messo da parte i sentimenti. Ogni uomo, per ammassare le sue ricchezze, deve avere del pelo sullo stomaco, dicono. È così?».
 
Gli occhi neri e furbi di Lucchini hanno un attimo di smarrimento. In una regione pacioccona, dove le interviste ai padroni vengono fatte a sbuffi d'incenso e a suoni di violino, la domanda ha l'effetto di  un colpo sotto la cintura. Tuttavia, da buon lottatore, Lucchini incassa e sorride: «Il pelo sullo stomaco» dice. Già. Vecchia storia, Tutti quelli che arrivano in alto, per chi resta a pianterreno, devono essere spietati e disumani. È la spiegazione più semplice e comoda. Con questo metro, avevano pelo sullo stomaco tutti quelli che sono arrivati al comando: Napoleone e Alessandro, Paolo VI e Churchill...
«Ma a mio parere» continua «le cose stanno diversamente. L'abiezione, la ferocia, si trovano tanto in alto che in basso. Ho conosciuto uscieri abietti, e presidenti di azienda relativamente candidi».
 
«Saprebbe riconoscere il suo difetto più grave?».
«Oh, questa è bella. Non ci ho mai pensato...  Dunque vediamo: forse, ecco...  mi fido troppo della gente».
«Ma questo non è un difetto, commendatore...». «Intanto, non sono neanche cavaliere. Secondo, dico sul serio:  a fidarsi della gente, sì pigliano i certe fregature...».
 
«Lei ha finanziato, se non sbaglio, un mensile che, si chiamava il "Bruttanome".  Era fatto dalle migliori teste calde della città. Che condizioni ha posto, per stac­care l'assegno mensile?».
«Nessuna condizione. Per me, gli ho detto, potete scrivere quel che vi pare, anche viva Mao. So­no fatti vostri. L'unica cosa che vi chiedo, è un po' di intelligen­za. La brutalità senza brio, non mi diverte».
«Non scoprirò niente di nuovo, suppongo, se io dico che molta gente considera il suo “sinistrismo” una polizza di assicurazione per il futuro. Non si sa mai…».
«Non mi manca che stare a sentire quel che dice la gente!».
 
In vena di ricordi, Lucchini mi mostra un’enciclopedia della tecnica che gli ha regalato il suo amico sindaco Bruno Boni: a pagina 907 c’è la fonderia e il maglio che suo padre aveva a Casto, tali e quali.
«Vede»  mi spiega «questa bottega che ho trovato da ragazzo era la stessa degli artigiani del Medio Evo, precisa identica. Bene, in 15 anni abbiamo fatto un salto di secoli. Oggi le nostre macchine, i nostri acciai, i nostri metodi sono quelli dei Paesi  più avanzati... Quando ero bambino,  il nostro salotto era la stalla. Andavamo nella stalla per scaldarci un po’,  le donne facevano la colletta per comprare una lampadina, che poi si pagavano sferruzzando la lana.  Mangiavamo la carne una volta l’anno, portavano gli zoccoli anche i giorni di festa … In venti anni, da zero, abbiamo creato una ricchezza che è di tutti, perché loro hanno voglia di chiacchierare, ma i soldi io non me li posso portare al cimitero».
 
«Sua moglie, come l’ha conosciuta?».
«Facendo un affare. Ero andato a comprare delle stufe; mia moglie dirigeva un negozio di stufe, che per la verità non funzionavano tanto bene».
«È un marito facile, o difficile?».
«Diciamo che sono un marito italiano. Forse qualche scivolata in passato… Ma il dolore di una relazione, a mia moglie, non la darei mai. Mai».
«Ha mai pianto, signor Lucchini?».
«Oddio, pianto…  Non mi ricordo quando ho pianto l’ultima volta. Devo aver pianto quando ero piccolo.  Quando è morto mio fratello in guerra».
«Qual è l’ora più bella della sua giornata?».
«La domenica, quando aspetto l’alba sul Po; vado a caccia di beccaccini».
 
 
Nantas Salvalaggio

 



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