10 Febbraio 2017, 17.10
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Sarà inaugurata questo sabato 11 febbraio, nello spazio espositivo di via Glisenti 43 a Vestone, una mostra di Stefano Freddi, artista del Savallese. La presentazione è stata affidata all'esperta Michela Valotti

 
Il "vernissage" è atteso per le 18.
La mostra rimarrà poi aperta fino al 5 marzo, dalle 17 alle 17 nei giorni feriali, dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19 il sabato e la domenica.
Ingresso dempre libero.

La presentazione critica dell'arte di Stefano Freddi, artista eclettico di Briale che sa coniugare l'attività di imprenditore agricolo con la passione per le cose belle e per l'arte, è stata affidata all'esperta Michela Valotti.

Di Michela Valotti anche "Il bosco di Arianna", testo critico sull'arte di Stefano Freddi, titolato come la sua prima poesia, scritta nel 1985.

Eccolo: 
 
È passato poco più di un secolo dalla dirompente apparizione del Futurismo, fragorosamente concentrato in una palingenesi universale, all’insegna della macchina e della velocità.
Nel più ampio contesto europeo che, contemporaneamente, assorbiva le energie dei Fauves e dei Dadaisti, l’avanguardia italiana ribadiva la necessità di un nuovo sguardo sulle cose, immaginando che il dinamismo di un cane al guinzaglio avrebbe potuto fissarsi sulla tela, inseguendo le oscillazioni modulari del pelo dell’animale, a passeggio per la metropoli milanese.
 
Allo stesso tempo che Boccioni apriva un varco nella modalità riproduttiva degli elementi del cosmo, dichiarando il suo interesse scientifico per i nuovi traguardi degli studi sulla materia.
La “compenetrazione dei piani” certifica la necessità di superare il finito, catapultando l’occhio verso ciò che sta al di là del tempo e dello spazio.
 
La ridefinizione del rapporto osmotico tra pieno e vuoto, a pochi anni dalla scoperta dei cosiddetti “raggi Röntgen” e dalla prima proiezione cinematografica dei fratelli Lumière, inaugura una nuova stagione dell’arte figurativa, ormai definitivamente sganciata dalla mimesi accademica, lanciata verso l’astrazione dei prismi di Romolo Romani, prima ancora che degli acquerelli di Kandinskij.

L’artista, profeta del nuovo mondo, capta le vibrazioni cosmiche riversando nella fluidità del segno l’ineffabile mormorio della goccia d’acqua, piuttosto che le onde eteriche che effondono dai corpi.
Il grande e il piccolo, il reale e l’immaginario vengono risucchiati in un’unica vastità che si fa magma esplosivo nella scultura e visione impalpabile nella pittura.
Il vedere, come precipua attività dell’occhio, si interroga sul cosa e sul come, dirottando lo sguardo dell’artista verso panorami centrifughi, alla ricerca di senso.

Senza un filo che tracci un percorso, e consenta di voltarsi indietro per ripercorrerne le tappe, come quello che la mitologia assegna alla saggia Arianna, è difficile orientarsi nella multiforme accidentalità dell’esistere, ma anche del creare.
Quel filo, Stefano Freddi l’ha trovato, anzi ne ha fatto una matassa, groviglio fluttuante su superfici a tratti opache e scure, a tratti, invece, specchianti, in un lavorio continuo che richiama un’altra donna della tradizione classica, Penelope, alle prese con la mitica tela.
 
L’occhio dello spettatore viene fagocitato dai filamenti che disegnano – ma talvolta modellano in rilievo – le preparazioni ruvide e terrose, come a ribadire la necessità di una osservazione lenta, indulgente, concentrata a leggere, tra i solchi, le trame sovrapposte che incidono il fondo, alla ricerca di nuove epifanie.

C’è fatica nel lavoro di Stefano Freddi, per trovare una via d’uscita, quella che porta a superare il bosco, per accucciarsi ad annusare gli odori dei funghi e delle foglie umide dell’autunno, pronte a fecondare quell’humus su cui sono posate, a strati.

E non si tratta, per l’artista, di scandagliare al microscopio, con precisione fiamminga, le minime forme di vita che animano il nostro bioma, quanto di lasciarsi trasportare, lui stesso, dal fluttuare quieto e composto di quegli organismi che si dilatano a dismisura, senza mai perdere il filo, solido ancoraggio alla terra che li ha generati e ne garantisce la riproduzione.

Nel rispetto di quel delicato equilibrio naturale che viene sondato per frammenti e pazientemente ricomposto, per dare forma all’impenetrabile labirinto dell’anima.

Michela Valotti

 


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