16 Febbraio 2014, 09.54
Valsabbia
Lettere

Non senza fatica, ma da donna libera

di Le ragazze di V.G.

Non se ne parla mai, ma il problema è sempre più frequente. I disturbi alimentari sono malattie che possono portare alla morte e ci vorrebbe più informazione


Loro sono "Le ragazze di V.G." e solo alcune abitano la Valle Sabbia. Si ritrovano per affrontare la malattia e soprattutto le loro paure.
Ci hanno inviato questa testimonianza, già pubblicata anche sul sito dell'Associazione Il Bucaneve dove chi desidera approfondire la tematica per sè o per qualcuno che gli è caro, può trovare nuovi riferimenti.

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Quello che segue è scritto in prima persona ma lo abbiamo scritto in più ragazze...speriamo che possa essere utile a tutte le ragazze/i che hanno questo problema.
Le strutture ci sono e la via d'uscita esiste. FORZA!

Mi piacerebbe iniziare a raccontare la mia esperienza partendo dalla parola “colpa”.
Il senso di colpa a mio parere è un nodo cruciale per le persone che soffrono di un disturbo alimentare. Si tratta di un senso di colpa esistenziale, una sensazione che ti pervade totalmente, che contamina ogni singola cellula, che proprio per poter essere confinata trova sfogo nella cosa più normale, più banale: l’atto di alimentarsi.

Tutto viene temporaneamente finalizzato anzi subordinato al controllo calorico, alla gestione degli impulsi, dell’impulso.
Tutta la vita, tutta l’esistenza nella sua accezione più globale viene immolata al sacrificio alimentare. Resistere alla fame, resistere alle necessità fisiologiche, resistere per resistere, per poter murare i propri sentimenti.
Sempre, incessantemente, senza tregua, non ti devi rilassare mai, dopotutto devi espiare la tua colpa.

All’inizio la situazione appare gestibile e governabile, perfino gratificante, ma poi si sé inevitabilmente costretti a scontrarsi con la con la realtà più dura e vera.
Vieni completamente trascinato nel vortice e in un attimo non sei più tu che gestisci nulla ma al contrario vieni gestito dalla tua malattia, il tuo sintomo assume il ruolo di un direttore d’orchestra.

La tua vita precedente non esiste più, ci sei tu e il tuo male, secondo te incurabile e destinato all’eternità.
Molte persone che soffrono di un disturbo alimentare sono in grado di lottare contro se stesse anche in punto di morte, lasciano le redini per un attimo, il tempo necessario a non soccombere, essendo poi subito pronte a riprenderle non appena riescono vagamente a tornare a galla.

E così in questa lotta infinita passano gli anni, il tempo scorre veloce e non ha nessuna pietà.
Mentre il mondo intorno a te cresce, lotta, soffre, sorride, cambia, esiste,agisce, frigge, tu sei lì. La vita ti scivola dalle mani mentre tu imprigionata nei numeri, immobile, la vedi passare.
Non vuoi sentire nessun dolore e allora preferisci rinunciare anche alla più piccola gioia, hai deciso di eclissarti, a tuo dire per sempre. O meglio, finchè durerà.

Non ci pensi al futuro, il futuro non esiste, è una dimensione a te esterna, non hai la forza di guardarlo negli occhi davvero.
Resti nello stallo di un presente irreale oltre al quale non vuoi e non ti senti assolutamente in grado di gettare lo sguardo. In fondo sai benissimo cosa ti aspetterà qualora dovessi sopravvivere.
Ti figuri un groviglio di dimensioni colossali e allora tanto per cambiare fai qualcosa, il solito qualcosa, per evitare di pensarci davvero e resti incastrata in una mediocre sopravvivenza priva di senso, nel circolo vizioso più becero.

Ebbene questo circolo vizioso può essere spezzato.
E’un percorso duro, costa fatica, sudore, dolore, lacrime, ti lascia senza fiato. Devi necessariamente passare attraverso la sconvolgente sensazione di sentire improvvisamente franare il terreno sotto di te. La percezione di precipitare nel vuoto.

La necessità di destrutturarsi radicalmente e ricostruirsi partendo quasi da zero.

Quasi, non del tutto, perché quella sofferenza indicibile ti ha fatto sviluppare delle risorse fuori dal comune anche se ancora non lo sai, lo senti ma non ne hai la piena consapevolezza.
Ma da lì in poi la strada, fidati, è tutta in discesa.

Fiducia, fidarsi, affidarsi. Si parte da qui.
E’ piuttosto scontato che da un incubo simile, da una malattia così fortemente invalidante sia oggettivamente impossibile uscirne da soli.
Bisogna prendere coraggio, chiedere umilmente aiuto, dissociarsi dal ruolo di eroina e rivolgersi a dei professionisti.

Se aveste il cancro non andreste dall’oncologo? Credo di sì, quindi anche questo che è una sorta di cancro dell’anima non può prescindere dall’intervento di un dottore.
Naturalmente la voglia di vivere non te la conferiscono certo i medici, nessuno ti salverà, nessuno ti regalerà di nuovo la vita se tu non lo vorrai.

Trovare un equilibrio, il mio equilibrio, mi dicevano spesso. Non c’è nessun equilibrio fino a che resta un germe malato, c’è solo un temporaneo e precario livellamento che non fa altro che preparare il terreno ad una nuova e più devastante, rovinosa ricaduta.
Onestamente l’etichetta di malata però non mi dispiaceva affatto, mi conferiva (nella mia visione patologica) quell’alone bohemien di esclusività e mi metteva al riparo da eventuali fallimenti perché dopotutto io ero anoressica. Stavo male.

L’anoressia era radicata nella mia identità, mi faceva da paracadute, mi dava un senso. Sì, ma a che prezzo?
La mia anima e il mio corpo, la mia vita insomma, tutto era stato risucchiato in un delirio complessivo. Ero rimasta completamente sola con il mio disturbo, come se vivessi una bolla, come fossi drogata, a volte quasi autistica.
Nonostante ciò non mi sono arresa e ho lottato, ho lavorato duro, ho pianto, sono stata male fisicamente a causa della tempesta emotiva che mi provocava scavare in modo serio dentro di me.

Ho deciso che non volevo, non potevo, non dovevo accontentarmi semplicemente di restare a galla.
Mi facevo forza pensando al domani, sognando quella vita normale da cui tanto avevo fuggito. Non posso omettere di dire che questo processo di cambiamento, di evoluzione, è potuto avvenire solo nel momento in cui sono stata fortemente incalzata dalle persone che mi avevano in cura, solo quando mi sono concretamente fatta aiutare, quando messa alle strette ho abbassato le barriere e mi sono detta “lascia che sia”, quando mi sono messa effettivamente in gioco.

Da lì in poi è iniziato un flusso di coscienza, un fiume di sentimenti e di paure che ho lasciato scorrere fuori ma soprattutto dentro di me.
Allora quel garbuglio inestricabile ha iniziato a diradarsi sempre di più e ho potuto riprendere davvero il bandolo della mia personale matassa.
Prendendo consapevolezza di ciò che mi aveva portato a distruggermi così tanto e così a lungo ho trovato anche la forza dire a me stessa di accettare.

Mi ripetevo di accettare la vita, accettare il passato, accettare il corpo, accettare la natura, accettare il cibo, accettare il futuro, accettare il destino, accettare il dolore, accettare l’amore, accettare gli imprevisti, accettare che la vita non è perfetta mai. Per nessuno.
Accettare che la vita per vari motivi, coincidenze, intoppi può anche non essere come la sognavi tu ma non per questo non è degna di essere vissuta, amata, goduta, rispettata.

Il concetto di accettazione è stato fondamentale nel mio percorso verso la rinascita, non nel senso passivo del termine ma al contrario nel suo valore più positivo. Prendere quello che la vita ti riserva e coglierne nei limiti del possibile, il lato migliore.

Le difficoltà, è palese, ci saranno sempre
ma non per questo dobbiamo lasciarci sopraffare da esse annullandoci e infierendo su noi stessi. Non è umano lottare contro tutto senza sosta.
Oggi dopo innumerevoli ricoveri, dopo essere stata in fin di vita, dopo aver pensato e pregato di voler morire tutti i giorni per lunga parte della mia vita sono una persona felice, ho smesso di vivacchiare tra una degenza e l’altra.

Sono felice di vivere, non sono certamente in pace o emotivamente risolta, nessuno lo è mai, ma sono affamata del presente e curiosa del domani, voglio agire, costruire, ridere, volere, sentire, amare, piangere, correre, riposare, urlare, sussurrare, giocare, fare, essere.
Ho cambiato prospettiva, l’ho scelto, deciso e voluto fortissimamente e sono una persona completamente nuova, non so se migliore ma certamente diversa.

La mia vita anoressica ha il sapore di un esistenza parallela, un capitolo lungo, denso, doloroso e che probabilmente doveva avvenire perché in quel momento era il solo modo che sentivo di avere a disposizione per incanalare il dolore, di conseguenza in mi ha forse salvata e protetta.
Dopo tutto quello che mi è successo oggi riesco a guardarmi dentro, piangere, arrabbiarmi, urlare, soffrire, spaventarmi, barcollare, sbagliare non senza fatica, ma da donna libera.

Le ragazze di V.G.
 


Commenti:
ID41723 - 16/02/2014 13:41:37 - (sonia.c) - GRAZIE RAGAZZE!

grazie dela vostra testimonianza.le parole sono importanti! e le vostre lo sono ancora di più! racchiudono e ci raccontano il vostro cammino , buio ,e pieno di sofferenza ,che,trova la strada della luce!la strada c'è!è questo che conta..la strada c'è e voi ce la mostrate.grazie.

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