03 Ottobre 2016, 08.41
Scuola

Un contributo alla riflessione sulla scuola

di Beppe Biati

Lunga per il web, ma oltremodo interessante, la dissertazione di Giuseppe Biati intorno alla scuola. Pubblichiamo volentieri

 
Negli anni ’60 è stata effettuata una difficile e vincente sfida: elevare il livello culturale della popolazione italiana. 
Ciò voleva dire più cittadinanza, più qualità della vita, più contributo allo sviluppo del paese, non solo aggiustamenti interni di un sistema formativo  strategicamente innovato.
 
Ha fatto seguito, negli anni ’70, un cambiamento dei contesti di apprendimento; nella fattispecie il riferimento è stato individuato nella “classe”, come setting di apprendimento, con una particolare attenzione verso la nascente cultura del territorio.
 
Gli anni ’80 hanno costituito, per l’Italia scolastica tutta, una grande riflessione su una unitarietà dei programmi scolastici (1979: Programmi della Scuola Media; 1985: Programmi della Scuola Elementare): il tutto con una logica di tempi distesi e “formativi” per introdurre i cambiamenti, con metodi fortemente processuali, senza gli imprudenti e frettolosi “blitz” di oggi.
 
Oggi, il rischio è di non costruire un “processo corale”, di partecipazione.
 
A sedici anni dalla Legge 59 sull’Autonomia scolastica, se vi è un riconoscimento di non ritorno e di non messa in discussione di questo indispensabile strumento, non è altresì ben chiaro dove batte il cuore dell’Autonomia stessa.
 
Batte nelle Presidenze delle Scuole, nei ripensamenti e nelle difficoltà gestionali/organizzative (dove il rischio è il marketing di piccolo cabotaggio, ecc.) o dentro le aule scolastiche, nella ricerca didattica, nell’organizzazione dell’insegnamento/apprendimento, nella quotidiana lettura in faccia ai ragazzi/alunni dei loro bisogni, nel dar senso ad un lavoro didattico, ecc.?
 
Nell’interrogativo posto, una risposta c’è, quasi sicura, di non aver centrato l’obiettivo, di non essere andati, ancor più colpevolmente, verso i “sistemi delle Autonomie”, autonomie forti, dialoganti: Scuole come sistemi.
 
D’altra parte, la constatazione/amarezza risulta essere quella di una scuola “non rispettata”, non scelta come investimento (se non a parole, sia da sinistra che da destra).
 
La Scuola, definita bene indispensabile, non trova una traduzione in decisioni politico/finanziarie coerenti: basterebbe (e ne avanza) citare i  commi sulla Scuola delle varie Finanziarie prima e dei Documenti di Programmazione Economica dopo ed ora.
 
Ma quali sono i compiti moderni di una scuola di base?
• Ritornare al team di insegnamento;
• Ritornare all’unitarietà del tempo-scuola;
• Costruire un rapporto tra ordini di scuola;
• Ripensare ad una riforma della Scuola Superiore in rapporto anche al Titolo V^ della Costituzione;
• Ecc.
 
Di contro, sullo sfondo di questi problemi, vi si riscontra un attacco mediatico alla scuola, rea, a loro dire, di essere come un “corpo impazzito”. 
E’ sufficiente prendere alcuni episodi di “malascuola” ed estendere la generalizzazione a tutte le scuole attraverso il blog mediatico.
 
Del resto, le nostre aule sono diventate “di frontiera”, al plurale, con pressioni di ogni tipo e non ben filtrate da parte delle famiglie. 
 
Tra Scuola/Insegnanti/Genitori vi è spesso una denigrazione reciproca; e, mancando la condivisione, i genitori diventano avvocati dei loro figli, entrando non in dinamiche educazionali, ma unicamente e smaccatamente vertenziali.
 
Tutto ciò non aiuta a costruire un curricolo, a parlare di curricolo, ma unicamente o quasi del rapporto emotivo, prima che del rapporto cognitivo.
Non si ha nemmeno tempo di ragionare su un cambiamento strutturale delle modalità di apprendimento dei nuovi alunni, modalità spostata più su una dimensione senso-percettiva, che su una dimensione cognitiva pura.
 
I “nativi digitali” (i nuovi alunni) sono diversi e pongono domande diverse.
Dal lato educativo/formativo
• è più difficile parlare con i ragazzi e far parlare i ragazzi;
• è più difficile gestire il rapporto genitoriale (tutto si sposta sulla scuola, perché i genitori non ci sono come tali (soprattutto i padri); o meglio, magari ci sono di più come tempi, ma con un rapporto spostato sulla “dimensione amicale del  concedere”, (per accreditarsi), facendo scomparire impegno, regole, punti di riferimento valoriali, inattaccabili e fissi un tempo.
 
Si sposta la domanda sulla scuola, che deve insegnare le “regole”! 
 
Ma è difficile insegnare le “regole”, quando nel contesto familiare le regole vengono baypassate e sostituite con l’”amicalità genitoriale” che  è raffinata abdicazione al ruolo della “vera e propria genitorialità”.
E’ demandato ( e preteso) un ruolo paterno e materno  alla scuola, quasi come iniziazione alla crescita, alla cultura, al gruppo, al gruppo-classe, ecc.
 
D’altro canto, se così è, la scuola (intelligente lettrice delle dinamiche e dei tempi) deve riacquisire e far riacquisire “insieme” un senso per darsi delle regole, per poi dare un approccio culturale successivo (compito precipuo della scuola).
 
Allora va ripensato il ruolo di interazione degli insegnanti con gli allievi.
 
Ma la scuola cosa fa?  
 
Pone, modernamente,  l’enfasi sulla “certificazione”: bisogna dare per forza una attestazione! Prima giudizi, poi voti, poi di nuovo giudizi e lettere (ABCDE)!
Ma tale enfasi sulla certificazione (è chiaro) spesso fa dimenticare la centralità dell’ “aula”, orientata alla “conoscenza assieme” (vedi Don Milani), a dare effettività alla “risorsa-classe”.
 
Se analizziamo bene (quel che resta, tra le diverse cose, delle Superiori) l’elemento di spicco è l’esperienza sociale del vivere e apprendere insieme. 
C’è ancora una dimensione di richiesta di socialità, dove si potrebbe “giocare”  come insegnanti ed educatori (al di là delle ingegneristiche costruzioni dell’organizzazione scolastica riferita  alle diverse branchie di orientamento scolastico e/o professionale) la “specificità di professionisti” dell’insegnamento/apprendimento.
 
Va da sé, allora, il bisogno di affinamento della dimensione relazionale ai fini dell’introduzione nel mondo dell’apprendimento, della conoscenza, della cultura.
 
La riscoperta della dimensione di “collegialità” del team, degli insegnanti (addirittura contrattualizzata nella Scuola Primaria con le due ore di programmazione obbligatoria all’interno delle 24 ore di servizio) diventa cogente.
La scuola non è pensabile e riconducibile  solamente a ingegnerie curricolari, a certificazioni, a competenze. 
Ciò ha senso se si ha presente il contesto di relazione, di sviluppo, di condizioni che implicano, poi, anche il metodologico, laddove, il livello di  prescrizioni del Centro non può essere intrusivo nelle scelte della scuola dell’Autonomia.
 
I fattori che mettono in moto i processi di cambiamento non sono quelli maxi delle grandi riforme, non sono quelli illuministici: sono quelli legati a fattori più locali che macro.
 
Tornano degli imperativi categorici:
• ridare un senso all’autonomia scolastica,
• ridare un senso alle professionalità;
• tener conto delle condizioni di sviluppo (che sono politiche).
 
Abbiamo il problema di delineare un progetto di formazione 3-16 anni, o meglio 3-18 anni: ma su questo non c’è un investimento forte.
 
Basterebbe analizzare il problema dei 14-16 anni:
• il 30% sono sconfitti (drop-out);
• l’altro 30% (che otterrà il diploma) è promosso con debiti formativi, aprendo il dibattito sulla “disaffezione scolastica” (una scuola che li ha resi in costante disagio)…
 
Riusciranno  i “già effettuati e preventivati interventi governativi” a risolvere il problema?
 
Si è parlato molto di “competenze trasversali” dei ragazzi di 16 anni, competenze culturali con valori comuni.
 
Il problema è: come faccio a legare il quadro di queste competenze ai percorsi curricolari?
 
Accelerare sulle “certificazioni” (solamente come procedure) rischia di diventare un solo fatto amministrativo e non frutto di un percorso curricolare consolidato e riflesso, frutto di “valore formativo”.
 
Parlare, poi, di competenze, in senso lato, cosa vuol dire se non si fa una chiarificazione di differenze sullo stesso termine/contenuto di competenza?
 
Esistono:
competenze in senso professionale (curvatura della conoscenza sul saper fare in contesti professionali/operativi, utilizzo coerente delle conoscenze, ecc.);
competenze-chiavi (quadro europeo) per la vita (incidono sulle risorse emotive, il crescere come cittadini, un nuovo umanesimo; è il sapere che dice qualcosa alla tua vita, competenze trasversali/esistenziali/personologiche, ecc.;  
competenze metacognitive (alcuni percorsi sono fondamentali per riorganizzare il pensiero, la lettura di contesti, ecc.; sono abilità che sorreggono il metodo di studio, non misurano “pezzetti di conoscenze”; sono ascrivibili a didattiche metacognitive, ecc.);
competenze culturali legate alle discipline (linguistiche, matematiche, artistiche, ecc.): inferiscono nei linguaggi, nelle abilità, nelle procedure, ecc. (Es.: il quadro europeo delle lingue, ecc.).
 
Su quanto sopra descritto, che interpretazione diamo alle competenze? 
Perché in base a questo c’è una diversa azione sul metodologico.
Poi, quali sono i livelli di competenza?
Quali i “punti di riferimento” (i livelli-soglia): a livello nazionale non ci sono ancora.
A livello di governo ministeriale prevale la logica del taglio, rispetto ad una unitarietà di progetto, che, se presente e condiviso,  potrebbe addirittura giustificare un’operazione di ”taglio per”, di ottimizzazione e finalizzazione delle risorse!
 
I livelli di competenza (ma non solo)  introducono  anche la valutazione come cultura che accompagna, che agisce sulle didattiche, ecc.
 
Mentre, invece, il problema centrale valutativo posto dalla Legge 169 del 30 ottobre 2008 pare sia  l’esclusiva  pretesa di descrivere la persona con un voto o con una lettera (seppure con giudizio scritto) che ne riduca il senso ad una mera quantità, ad una semplice leggibilità, ad una immediata comprensibilità. 
L’allora Tremonti docet, in una sua lettera al Corriere della Sera, dove non riusciva a capire come “alcuni” non riuscissero a darsene ragione circa la oggettiva precisione quantistica del numero, “scolasticamente” da tradurre in voto.
 
Ma nella valutazione che accompagna, che aiuta, che sviluppa, la persona non può essere ridotta ad un numero.
 
La persona e' misura dell'azione educativa, ne è inizio, termine, senso e significato. 
In riferimento alla stessa, si intraprendono azioni di promozione e non di punizione.  L'insuccesso è, pertanto,  concepito come indicatore di fallimento del processo e del percorso. 
 
E’ lì che va estesa la riflessione!
 
La sfida non è, quindi, quella di raddrizzare i bulli col bastone (come, ahimè ed a torto, Gelmini sollecitava), quanto quella di intervenire sulle cause che hanno portato all'insorgere di comportamenti devianti. 
 
Possiamo dire che è doveroso andare verso una “cultura dei traguardi” (non certo verso gli ottocento e più  OSA e più della Riforma Moratti), traguardi disciplina per disciplina (discipline formanti), con scelti  e fondanti fondamentali, andando poi verso un superamento dei confini disciplinari, per dare unitarietà alla conoscenza.
 
Va preliminarmente richiesto che vi sia coerenza tra tutti gli standard: da quelli formativi a quelli di prestazione e funzionamento, con specifiche e adeguate risorse, lavorando, magari, per “repertori” (anche prendendo spunto dagli ex OSA) suggeriti, non prescrittivi, costruiti e validati, non predefiniti e imposti.
Anche in questo contesto l’autonomia didattica ed organizzativa delle singole istituzioni scolastiche ( legge 59/97) può aprire campi infiniti  agendo in maniera funzionale alle richieste del territorio, trovando soluzioni differenti per rispondere ad un’utenza sempre più articolata e variegata, ottimizzando  le risorse a disposizione (che ci devono essere), “rendendo conto all’ utenza” della qualità dell’offerta messa in campo. 

Ma, purtroppo,  da anni,  si attende 
• una definizione dei livelli essenziali delle prestazioni  e degli standard relativi alla qualità del servizio (come recita il DPR 275/99,  art. 8): a chi spetta tale compito se non allo Stato, anziché ritenere  la scuola come “fertile  terreno di razzia economica e di risanamento del bilancio”?;
• una Riforma degli organi collegiali, magari non nelle formule prettamente aziendalistiche in sostituzione di quelle democratico-partecipative;
• un  efficace sistema di reclutamento/formazione dei docenti e del personale; 
• un consolidamento delle indicazioni per il curricolo (chiare e definitive una volta per tutte!).
 
Un’ ultima, indispensabile domanda:
 
“Quale scuola” nella  “società del rischio?”.
 
Sarà ancora necessaria una scuola:
• dove si impara la cultura della cittadinanza?
• dove ci si prepara alla occupabilità?
• dove si impara la percezione della propria identità?
• dove si impara il rispetto delle culture?
• dove si impara il senso delle regole, delle reciprocità?
• dove si incontrano le culture, i ceti sociali, ecc.?
• dove si legge la “Costituzione”?
• dove corre il “libero pensiero”?
• ecc., ecc.
 
Rispondiamo con una convintissima affermazione positiva!
 
Partiamo comunque da una ineludibile necessità: la riforma di questa Scuola nonostante la Riforma.
 
Siamo altrettanto consapevoli che si possano avere vari strumenti interpretativi della Riforma che partano sia dall’esigenza di democratizzazione (ricerca e messa in atto dell’uguaglianza), sia dal bisogno di qualità ( sviluppo e promozione delle eccellenze).
 
Ma siamo altrettanto convinti  che, posto come base il criterio della “centralità della persona”, le interpretazioni  possono essere diverse.
 
Non vuol essere un mero esercizio di catalogazione formale, quello che si andrà a descrivere. 
Ma dalla scelta dell’uno o dell’altro criterio interpretativo, che fa capo a due diverse scuole di pensiero (con conseguente scelta legislativa) ne deriva  sicuramente un  esistenziale effetto sul futuro di un Paese.
 

Il criterio della “centralità della persona”
  
 
 
Non vorremmo mai fosse quell’effetto previsto nel suo intervento (anno 1950) da  Piero Calamandrei:
 
"Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza.
Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. 

Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? 
Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. 
C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). 

Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle.
Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi.

Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato.
E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. 

Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.
Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. 

Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta.
Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina…”
 
.in foto: Piero Calamandrei
 


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