05 Settembre 2016, 06.10
Pagine di storia

Il registro cifrato

di Guido Assoni

La cinematografia del secolo scorso e le attuali rappresentazioni a carattere storico-rievocativo non rendono certo giustizia al popolo oppresso del Regno Lombardo Veneto

 
Dopo il fallimento della Rivoluzione europea del 1848-1849, il regime asburgico attuò nel Lombardo-Veneto una politica ferocemente repressiva.
Se qualcuno ancora nutriva la vaga speranza di un’evoluzione costituzionale del governo imperiale austriaco, ci pensò il Feld Maresciallo Radetzky a porre fine ad ogni illusione con la comminazione di una serie impressionante di condanne a morte e al carcere duro per cause politiche, di requisizioni di beni degli esuli e l’imposizione di pesanti tributi e imposte straordinarie alla popolazione.

Il clima repressivo era fortemente sostenuto a Vienna dal giovane imperatore Francesco Giuseppe.
Cresceva così il malcontento alimentando le file dei movimenti in rivolta.

Intanto a Londra, nel 1850, Giuseppe Mazzini aveva fondato il Comitato Centrale Democratico Europeo ed il Comitato Nazionale Italiano lanciando nel contempo il Prestito Nazionale Italiano per finanziare la ripresa rivoluzionaria attraverso la vendita di cedole ovvero di vere e proprie cambiali da 25 e 100 lire recanti impressi i motti “Dio e popolo” e “Italia e Roma”.
L’interesse promesso era del 6% elargibile col rimborso del capitale dal futuro governo repubblicano.
L’idea del Mazzini era quella di formare tanti Comitati collegati fra di loro, segretamente da città a città in una rete le cui fila si sarebbero serrate al momento opportuno contro la tirannide asburgica.

La città di Mantova venne individuata quale centro di coordinamento del movimento cospirativo del Lombardo – Veneto.
Grazie all’impulso di due grandi patrioti, Giovanni Acerbi da Castel Goffredo e don Enrico Tazzoli, insegnante di filosofia da Canneto sull’Oglio, il 02/11/1850 venne istituito il Comitato insurrezionale antiaustriaco di Mantova.

La riunione costitutiva si tenne presso il palazzo Benintendi
non sorvegliato dagli sgherri di ronda in quanto il marchese Benintendi viveva da esule a Torino affidandone l’amministrazione all’ingegnere Attilio Mori.
Oltre all’Acerbi, a don Tazzoli e al Mori, vi parteciparono una quindicina di cittadini devoti alla causa nazionale tra cui l’ingegner Giovanni Chiassi, futuro eroe caduto a Bezzecca, Benedetto Cairoli, il medico Achille Sacchi, l’insegnante Carlo Marchi, il medico Carlo Poma, Giuseppe Finzi ed altri ancora.

In quell’occasione, patrocinato dall’Acerbi e da Don Tazzoli fece la prima comparsa un giovane studente dell’Università di Pavia, Luigi Castellazzo, comunemente chiamato “Bigio”, figlio del commissario della polizia austriaca Giuseppe Castellazzo.
Dopo un imbarazzo generale, Giovanni Acerbi ne sottolineò l’ingegno, la lealtà, la ferma determinazione nel voler cancellare l’onta della professione paterna.
D’altro canto anche i fratelli Bandiera pur discendendo da un comandante asservito allo straniero seppero dare la vita per la patria. 

Creato un direttivo all’interno del Comitato stesso, con presidente Don Tazzoli con delega ovviamente verso il clero, Attilio Mori che operò in sintonia con la borghesia rurale e Carlo Marchi, quasi subito sostituito da Giovanni Acerbi, che propagandò la causa al mondo studentesco.
Luigi Castellazzo ne divenne poi il segretario.

Le azioni pianificate vennero portate a compimento con successo: affiliazione di soci, raccolta di denaro con il Prestito Nazionale Italiano, procacciamento di armi, di informazioni sulle fortificazioni nemiche, collegamenti con Giuseppe Mazzini e con gli esponenti di altri Comitati che stavano nascendo in tutto il Lombardo-Veneto.
E così fu con Tito Speri (Brescia), Antonio Scarsellini, Bernardo Canal e Giovanni Zambelli (Venezia), Carlo Montanari (Verona), Luigi Pastro e Angelo Giacomelli (Treviso), Antonio Lazzati e Giovanni Pezzotti (Milano), Giovanni Cadolini (Cremona) e moltissimi altri.

I cospiratori erano coscienti dell’enorme rischio
cui andavano incontro recapitando da una tipografia svizzera le cartelle del prestito mazziniano e ancor di più il fatto di venderle ad ogni classe sociale avendo cura di discernere tra coloro che erano insofferenti del governo imperiale.

Anche gli acquirenti dovevano usare ogni cautela per nascondere le ricevute la cui scoperta avrebbe significato la morte.
L’amministrazione del denaro era poi una questione delicatissima, le entrate derivanti dalla vendita delle cartelle, le spese di stampa e per il reperimento delle armi, gli aiuti ai rivoluzionari non potevano essere oggetto di una regolare registrazione.

In quest’ottica Don Tazzoli ebbe l’idea di tenere il famoso registro cifrato, la cui chiave di lettura ovvero il Pater Noster in latino, era nota ai soli Acerbi e Castellazzo.
La preghiera tanto cara a Don Enrico Tazzoli che consta, fino all’Amen finale di 245 lettere, ognuna delle quali, per mezzo del numero che la sostituisce, andava a comporre i nomi degli associati, il motivo dei versamenti e la causale delle spese.
P  A  T  E  R     N  O  S  T  E  R     Q   U   I    E   S      I   N      C  Œ   L   I   S…….    A     M   E    N 
1  2   3   4  5     6   7  8   9 10 11   12 13 14  15 16  17 18   19  20 21 22 23       242 243 244 245

Come già accennato i rischi erano enormi e i congiurati probabilmente sottovalutarono le capacità e le competenze della polizia austriaca molto determinata, tra l’altro, a reprimere sul nascere ogni velleità di libertà.
La legge stataria promulgata con proclama del 10/03/1849 prevedeva che chiunque fosse colto nell’atto di svolgere attività sovversiva in qualunque forma doveva essere consegnato alla Gendarmeria e immediatamente impiccato.

Il due agosto 1851 venne giustiziato il popolano milanese Amatore Sciesa trovato in possesso di materiale compromettente ed accusato di avere affisso sulle pubbliche vie dei manifesti rivoluzionari.
Poco prima che il lugubre corteo si avviasse al luogo dell’esecuzione, al gendarme che lo esortava a rivelare i nomi degli altri congiurati, rispose in dialetto milanese (circostanza rilevabile negli atti processuali) “Mi soo nagott. Podi minga parlà e parli no. Quel che è faa è faa. Tiremm inanz”.

Poi é la volta del tipografo comasco Luigi Dottesio giustiziato a Venezia l’ 11/10/1851 in quanto divulgatore di opuscoli mazziniani antiaustriaci.

Il primo campanello d’allarme per i rivoluzionari di Mantova suonò alla fine dello stesso mese di ottobre del 1851.
Don Giovanni Grioli, coadiutore della Parrocchia di Cerese e stretto collaboratore dei patrioti, come spesso accadeva, si trovò a passare davanti ad un drappello di soldati probabilmente boemi (alcuni testi parlano di soldati ungheresi, altri di sloveni) impiegati in lavori forzati punitivi.
A scopo umanitario elargì le uniche due svanziche che teneva nella profonda tasca della veste ad un soldato implorante.
Altri soldati, altrettanto supplichevoli, non poterono pertanto essere beneficiati da altro obolo da parte del parroco.

Per vendetta essi lo denunciarono di subornazione
ovvero di averli indotti alla diserzione tentando di corromperli con denaro.
La successiva perquisizione presso la sua umile abitazione portò al rinvenimento di diciotto esemplari di un proclama mazziniano che esortava le popolazioni a non pagare le tasse per danneggiare l’occupante e di persistere fino all’indipendenza.
Il parroco si assunse ogni responsabilità e non intaccò la struttura cospiratoria non facendo alcun nome.

Inevitabile la condanna a morte “mediante polvere e piombo” anche se, in base alle leggi vigenti i sacerdoti potevano essere giudicati solamente dal foro ecclesiastico.
Dal momento che il Vescovo di Mantova, Monsignor Giovanni Corti, aveva rifiutato il proprio assenso, don Grioli venne fucilato in abito talare il 05/11/1851.
Nel dicembre dello stesso anno venne arrestato anche l’ingegner Attilio Mori, l’amministratore del palazzo Benintendi, sede del movimento cospirativo, con l’accusa di avere diffuso stampa satirica contro la visita del Feld Maresciallo Radetzky.

L’inizio della fine per i rivoluzionari di Mantova fu determinato da un caso fortuito.
Nell’ambito di un’indagine di polizia per spaccio di banconote false venne incriminato in seguito a delazione, l’esattore comunale di Castiglione delle Stiviere, Luigi Pesci, anch’egli aderente alla causa risorgimentale.
Durante la perquisizione della sua abitazione venne urtata inavvertitamente una cannuccia d’argento con pennino che stava sullo scrittoio.
Il Pesci si affrettò, con ansia mal simulata a raccogliere la penna, circostanza che non sfuggì al commissario filo austriaco Filippo Rossi, già patriota liberale nei moti del 1848/1849 e poi passato al soldo del nemico.

Dopo aver soppesato la penna e averla svitata alla base rinvenne, all’interno di essa, una cedola del prestito mazziniano.
Messo sotto torchio il Pesci confessò di aver acquistato la cartella da Don Ferdinando Bosio, insegnante di grammatica al seminario vescovile di Mantova e grande amico di Don Enrico Tazzoli.
Fu il secondo dei cospiratori dopo Attilio Mori ad essere arrestato ma, questa volta, per un motivo ben più grave.

Vista l’aria pesante che si respirava, Antonio Fornaroli, giudice del tribunale cittadino e patriota, coadiuvato da monsignor Luigi Martini, fece di tutto per convincere i congiurati a lasciare immediatamente la città.
Alcuni di essi, come Giovanni Acerbi, Giovanni Chiassi, Achille Sacchi e Benedetto Cairoli e altri, seguirono tali indicazioni e si resero contumaci.

Non così Don Enrico Tazzoli
che non volle abbandonare la vecchia madre e i compagni di lotta.
Aiutò però il fraterno amico Giovanni Acerbi ad espatriare accompagnandolo fino al confine di Modena.
In tale occasione il parroco si procurò una profonda ferita ad un piede cadendo dal predellino della carrozza, ferita che risulterà poi fatale per una serie di fortuite circostanze.
Prima però, ebbe l’accortezza, sollecitato dall’avvocato Fornaroli, di nascondere il registro cifrato sotto il fieno delle stalle di sua sorella, Eloisa Urangia e a ricifrare i nominativi degli affiliati utilizzando pseudonimi, nomignoli o abbreviazioni e a utilizzare frasi convenzionali per indicare le causali.
Luigi Castellazzo invece, dato l’ascendente paterno si sentiva in una botte di ferro.

Le gelide celle con insetti di ogni specie
, i ferri alle caviglie dei prigionieri e l’umidità trasudante dai muri delle carceri del Castello di San Giorgio e della lugubre Minolda di Mantova non avevano nulla da invidiare alle famigerate prigioni dello Spilberg o di Josephstadt.
Come se non bastasse questo, ai prigionieri venivano imposti lunghi digiuni frammisti da razioni di nauseabondo brodo al lardo con fagioli mal cotti, la stanza delle torture, l’accanimento contro i parenti, somministrazione di dosi massicce di Belladonna, una pianta medicinale contenente antropina, un alcaloide che provoca delirio e coma, e via discorrendo.

Al contrario di Don Giovanni Groli, don Ferdinando Bosio non seppe resistere a lungo ai metodi coercitivi fisici e morali dell’auditore e dei carcerieri e fece ampie rivelazioni sciorinando, tra gli altri, anche il nome di Don Enrico Tazzoli.
Questi venne dunque arrestato nella tarda sera del 26 gennaio 1852.

Il colpo decisivo degli inquirenti non fu tanto l’arresto del parroco, il quale seppe far fronte alla carcerazione ed agli interrogatori con grande dignità e coraggio, ma il ritrovamento, a casa sua di molta documentazione compromettente in primis il famoso registro cifrato in cui aveva annotato, seppur camuffati, i nomi degli affiliati.

Non essendo in grado di muoversi per la profonda ferita, si era fatto consegnare il quaderno proprio nella giornata dell’arresto. 
Dopo innumerevoli tentativi di decifrarne la chiave di lettura, lo stesso fu inviato a Vienna per la decifrazione da parte degli esperti crittografi del Ministero dell’Interno.
Drammatico il confronto in carcere tra i due parroci, l’uno che accusava e l’altro che negava ogni addebito.
Le lettere che Don Enrico Tazzoli poteva scrivere ai parenti venivano sistematicamente censurate al minimo accenno della condizione della prigionia.

Riuscì comunque, non si sa come, a far pervenire un paio di lettere ai compagni di lotta.
Alla sorella e al fratello riusciva a comunicare scrivendo col sangue sulle pezzuole che utilizzava per tamponare le emorragie della ferita al piede che non si rimarginava, complici anche le catene alle caviglie.
Tali lembi di tela facevano parte della biancheria del prigioniero, che, un uomo di fiducia della famiglia ritirava in un sacco dalle carceri.
Le risposte dei famigliari avvenivano con scritte su altrettanti pezzi di tela utilizzando un acido talmente schiarito da sfuggire al controllo degli sgherri.
Intanto Luigi Castellazzo prese in mano le redini di quel che restava del Comitato che lo stesso Mazzini aveva chiamato con il profetico nome “La Società della morte”.

Dopo l’arresto di Attilio Mori le riunioni si tenevano in una casa che il patriota Pietro Frattini aveva messo a disposizione degli affiliati.
In queste segrete riunioni, venne pianificato un attentato al commissario Filippo Rossi da effettuarsi in occasione del Carnevale 1852.
L’azione venne affidata a Tito Speri e al medico Carlo Poma coadiuvati dai congiurati del Comitato di Brescia e fallì in quanto il Rossi uscì dal teatro del ballo mascherato, accompagnato da ufficiali austriaci.

Nel frattempo gli inquirenti utilizzarono tutti i metodi più abbietti per carpire qualche segreto a don Tazzoli.
Un poliziotto di bell’aspetto ebbe l’incarico di sedurre la donna di servizio della famiglia al fine di ottenere rivelazioni, un falso detenuto politico venne messo alle calcagna del parroco al fine di carpire qualche confidenza. 
Non vennero risparmiati nemmeno il fratello, l’avvocato Silvio Tazzoli e Camilla Marchi, anziana direttrice degli Asili Infantili di cui Don Tazzoli era presidente.

Molto probabilmente fu la stessa donna a fare il nome di Luigi Castellazzo e di Giovanni Acerbi come amici e confidenti del parroco, anche se non è da escludere l’ipotesi che fosse stato don Bosio che, non solo riferiva ciò che sapeva, ma anche ciò che gli sembrava probabile, soprattutto in merito alla decifrazione del registro.
Fatto sta che con l’arresto nell’aprile 1852 di Luigi Castellazzo e la successiva decifrazione del registro, venne sgominata l’organizzazione rivoluzionaria di Mantova. 
Ci fu un’ecatombe di arresti e di condanne.

Il Castellazzo è una figura molto controversa del Risorgimento Italiano per il quale mi riservo un’analisi più approfondita magari attingendo dagli atti processuali o dagli studi degli storici risorgimentalisti Alessandro Luzio e Costantino Cipolla.

Il 07 dicembre 1852 nella valletta di Belfiore, situata fuori della porta sud della città virgiliana vennero impiccati nell’ordine:
- Giovanni Zambelli, veneziano impiegato nell’Arsenale e pittore a tempo perso, attivo nei Comitati insurrezionali di Padova, Treviso e Vicenza;
- Angelo Scarsellini, veneziano d’adozione, uno dei capi del Comitato di Venezia e in contatto con Giuseppe Mazzini;
- Don Enrico Tazzoli, presidente del Comitato di Mantova;
- Bernardo Canal, patriota veneziano;
- Carlo Poma, medico mantovano

Il 03 marzo 1853
venne eseguita la pena di morte per:
- Carlo Montanari, ingegnere e conte veronese;
- Don Bartolomeo Grazioli arciprete di Revere con l’accusa di aver diffuso cartelle del prestito mazziniano;
- Tito Speri eroe delle X Giornate di Brescia, accusato di aver attentato alla vita del commissario Filippo Rossi;

Il 19/03/1853 fu la volta di Pietro Frattini, invalido, già scrivano di avvocato che aveva preso in affitto una casa per conto dei cospiratori e dove era stata allestita una stamperia clandestina.
Un ora dopo l’esecuzione ci fu la pubblicazione ufficiale dell’amnistia per il genetliaco nell’imperatore, pubblicazione ritardata ad arte per poter impiccare lo sventurato Frattini.

Un ultimo agghiacciante particolare.
Per i due parroci condannati, gli austriaci ottennero un ordine speciale da parte del papa che sconfessò il vescovo di Mantova che aveva negato l’assenso alla sconsacrazione.

Fu così che il vescovo, Monsignor Corti, venne costretto a procedere al mortificante rito ovvero alla lettura della formula di condanna, alla svestizione del parroco sconsacrato e alla raschiatura con coltello della pelle delle due dita che sorreggono l’osta consacrata.

E così Pio IX, il papa dal pontificato più lungo della storia dopo quello di San Pietro, ultimo sovrano dello Stato Pontificio, responsabile di diverse condanne a morte comminate ad oppositori del potere temporale della Chiesa, filo francese e filo asburgico a seconda delle convenienze e comunque anti risorgimentale, riuscì a sollevare il disprezzo dei patrioti italiani.

Un papa che più di don Tazzoli meritava metaforicamente parlando la raschiatura delle dita delle mani e fors’anche dei piedi, venne nel 2000 proclamato beato.
Così va la storia.

Guido Assoni
 
Bibliografia
Olga Visentini – “Belfiore”;
Enzo Raffaelli – “I veneti coinvolti nella congiura mazziniana del 1851-52. I processi di Venezia e Mantova”;
Alessandro Luzio -  “I martiri del Belfiore e il loro processo”;
Silvio Pozzani – “Luoghi del Risorgimento a Verona”;
Costantino Cipolla – “I comitati insurrezionali del Lombardo-Veneto ed il loro processo a Mantova del 1852-1853”;
Costantino Cipolla – “Le memorie di Attilio Mori e di Monsignor Luigi Martini ed altri documenti inediti.
 


Commenti:
ID68110 - 05/09/2016 11:30:10 - (maurizio) - complimenti

Bravo Guido una finestra sulla nostra storia ben scritta e sicuramente documentata bel lavoro.

ID68358 - 23/09/2016 22:33:50 - (Sottozero) - Complimenti

Mi associo ai complimenti per l'interessante articolo storico di storia patria quasi locale..Bravo Guido

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