16 Maggio 2012, 08.00
Lettere

Potenze tecniche

Chi scrive nella rete diventa il "Condor" di Robert Redford ispirato da un articolo di Carlo Ruta.

 
Internet è il mezzo che meglio di ogni altro esprime l’origine di quanto vado dicendo da tempo, le cose che mutano, è il miglior mezzo o procedura perché queste “cose†possano mutare, mezzi e procedure sottoposte alla nostra volontà per il dominio delle “coseâ€.
Ma Internet ha anche fatto qualche cosa per la democrazia e non solo per le “coseâ€, nel senso dei suoi processi interni di comunicazione, ha reso più fluide e partecipative le comunicazioni e relazioni umane.
 
E’ questo il motivo della resistenza delle altre “potenze tecnicheâ€, vedete la TV e i suoi difensori coscienti e incoscienti, di limitarne il gioco d’azione con regole e norme procedurali più o meno sofisticate.
Il piano di battaglia che va combattuto, questo non hanno ancora capito per intero coloro che fanno analisi sulle altre potenze in conflitto, non è quello di soffocare Internet, ma è quello di controllare questo mezzo mirante ai loro di scopi, sempre che l’essenza di queste altre forme si identifichi con quella di Internet.
 
Per la democrazia sembrerebbe così, il contributo che i social network hanno offerto, fino ad oggi, alle lotte per la democrazia, aiutando a rompere l’isolamento e a coordinare i progetti di resistenza, è quanto sta accadendo in diversi paesi arabi, dal Maghreb al Medio Oriente, o ai paesi dell’est dove si mobilitano campagne di democratizzazione pacifica come fu la rivoluzione arancione, che non ha avuto gli esiti proposti solo perché le altre potenze tecnologiche, vedi Russia, ha fatto valere il suo arsenale atomico su tutto il resto.
 
Per le dittature questo mezzo è qualche cosa che all’apparenza sembra il nemico, ma che ha avuto e ha invece un fortissimo senso nel loro solco, non dimentichiamo che Internet è nata come rete militare, prima di ogni altra cosa.
Per le religioni le cose sono un poco più complicate perché ci sono di mezzo alcuni valori sacrosanti che possono servire il senso della verità a scapito della sincerità.
 
Da “Carlo Rutaâ€:
“La vicenda di Wikileaks, l’organizzazione che ha svelato la guerra in Afghanistan, alcune stragi di civili in Iraq e i «punti di vista» della diplomazia statunitense nel mondo, dimostra che si è già alle scaramucce. L’establishment americano, come è noto, ha reagito con stizza. Il Pentagono ha definito la pubblicazione di 250 mila cablogrammi delle ambasciate «un tentativo irresponsabile di destabilizzare la sicurezza globale».
E le invettive sono state concomitanti con alcuni fatti.

Julian Assange, l’attivista più noto della rete informativa, subito dopo la pubblicazione dei messaggi diplomatici, è stato arrestato, su disposizione di magistrati svedesi, per un reato disonorevole.
In poco tempo ha subito il prosciugamento dei conti bancari su scala planetaria, come avviene nei casi di famigerati terroristi internazionali.
Non solo: secondo i suoi avvocati, negli USA si starebbe lavorando in sordina perché possa essere incriminato per spionaggio, reato che viene punito con lunghe pene detentive. Non è detto che si voglia e si possa arrivare a questo.
Sarebbe un fatto dirompente, che potrebbe risultare un boomerang per gli Stati Uniti, tenuto conto peraltro che una sentenza del 2010 della Corte Suprema americana ha sancito la liceità della pubblicazione di documenti segreti del Pentagono da parte di Wikileaks.

Il paese che, infiammato dal Patriot Act, ha gestito per anni, e gestisce verosimilmente ancora oggi, il campo di Guantànamo non è lontano da quello che portò sulla sedia elettrica Julius ed Ethel Rosenberg.
Questa America, fedele appunto a sé stessa, inizia a temere il web mentre ostenta di sostenerlo, e, da gendarme della terra, minaccia di reprimerlo quando occorre, in casa, a Stoccolma, ovunque sia necessario.
Con quali giustificazioni? Al tempo dei Rosenberg, fino a tutti gli anni Ottanta, era facile esibire l’alibi della guerra fredda.
Adesso le cose sono cambiate. Non si può sbandierare l’esistenza di una potenza nemica che minaccia con il proprio arsenale atomico il mondo cosiddetto libero.
Wikileaks e le altre realtà del web che rivendicano la trasparenza della politica, non sono nelle mani del terrorismo islamico, né sono uno strumento d’assalto degli Stati outlaws, né un congegno subdolo della Cina, che insidia oggi, con ben altri mezzi, il primato economico mondiale degli States.

I modi, più o meno travisati, con cui si cerca di colpire alcuni livelli della nuova informazione, rappresentati come «crimine oggettivo», meritano di essere considerati allora con attenzione.
Non si tratta, a ben vedere, di una questione contingente.
Il web del presente crea apprensioni, ma tanto più suscita timori quello che si annuncia, di cui Wikileaks ha offerto fino a oggi solo un trailer, una sorta di anteprima. Il contrasto degli Stati e dei poteri forti può essere considerato in questo senso di livello preventivo.
E la «prevenzione» è, guarda caso, il paradigma dei conflitti di oggi.

La sfida della trasparenza non costituisce, ovviamente, una scoperta, né una prerogativa del web. Conta su una cultura, su una tradizione lunga, che nel secondo Novecento ha conosciuto proprio negli States momenti epici, soprattutto negli anni di Richard Nixon.
Gli americani cominciarono a perdere per davvero la guerra del Vietnam nel 1971, quando, in piena escalation militare, il New York Times iniziò a pubblicare i documenti segreti del Pentagono, i Pentagon papers, sulle operazioni in Indocina dal dopoguerra al 1967.
Gran parte dell’opinione pubblica statunitense si convinse a quel punto che si trattava di un affare sconveniente. Rimase sorpresa.
Riuscì pure a indignarsi, perché non era stata sufficientemente informata su come andavano le cose. Più di quanto fosse avvenuto negli anni precedenti, rivendicò quindi il ritorno a casa dei suoi marines.

Alla fine, i falchi del Pentagono furono indotti a rivedere i loro piani. Arrivava poi, con l’emersione giudiziaria dell’affare Watergate, ancora sull’onda di rivelazioni giornalistiche, dalle colonne del New York Times e del Washington Post, il benservito per Nixon, dopo che aveva ricevuto con il segretario di Stato Kissinger il Nobel per la pace.
Era probabilmente il trionfo del «quarto potere». Ma con l’avvento di internet, e tanto più dopo l’avvento del web 2.0, che proprio adesso comincia a cedere però il passo al ben più sofisticato web semantico, la sfida della trasparenza, non intesa come optional ma come chiave di volta della democrazia, può fare balzi in avanti di livello esponenziale.
Rischia di essere polverizzato, in particolare, il segreto di Stato, che, dilatatosi in modo abnorme negli anni della guerra fredda, nei sistemi liberaldemocratici è andato sostenendosi come una fatale necessità.

Si può trarre da tutto questo una ulteriore conclusione. Il web, mentre espande la democrazia reale, mette alla prova i sistemi che si fregiano dell’appellativo liberal, potendone svelare con una efficacia inedita le illiberalità nascoste, le ipocrisie, gli affari fondamentali in ombra.
Quale strumento di democrazia sostanziale, esso può costituire allora il tallone di Achille delle democrazie ufficiali , con implicazioni non indifferenti sotto vari profili.
Ma come cambia, in dettaglio, la sfida della trasparenza dopo l’avvento del web? Negli anni settanta, quando la stampa americana viveva il momento più esaltante, una rappresentazione paradigmatica, e problematica, del «quarto potere» veniva offerta dal film I tre giorni del Condor di Sidney Pollack, tratto da un romanzo di James Grady.

Eccone la trama, in estrema sintesi. Prima di varcare l’ingresso del New York Times, l’agente della CIA Joe Turner, nome in codice «Condor, interpretato da Robert Redford, è scampato a diversi attentati.
A volerlo morto è un apparato segretissimo, interno alla stessa Intelligence statunitense, che sta pianificando una guerra in America Latina per il controllo dei pozzi di petrolio e che sta eliminando uno dopo l’altro i testimoni scomodi, interni alla stessa organizzazione.

Uno di questi è appunto il Condor, autore di un rapporto riservato, deciso a far saltare tutto, denunciando l’intrigo alla stampa libera.
Egli ritiene sia questa la sua salvezza e, soprattutto, la salvezza morale del paese.
Alla fine, braccato dai suoi datori di lavoro, Turner consegna il report al giornale, ma il film di Pollack chiude con un interrogativo.
Appreso che il rapporto è finito nella redazione del quotidiano, il funzionario Higgins, che ha diretto sul terreno le operazioni omicide, gela il Condor con queste parole: «Ma sei sicuro che lo stampano? Dove arrivi se poi non lo stampano?».

Gli scenari adesso sono cambiati di gran lunga.
Disponendo di un PC, l’attivista del web che rivendica, come il Condor degli anni settanta, la trasparenza politica non ha bisogno di attraversare uno spazio fisico, sobbarcandosi fatiche di livello mitologico, per varcare l’ingresso del New York Times.
Attraverso la posta elettronica, i blog, you tube, twitter, facebook, e altro ancora, egli può comunicare con numeri altissimi di utenti, di tutti i continenti.

Al «Condor» di oggi può bastare una banale connessione in rete per raggiungere con efficacia il suo scopo, mentre mette in discussione la verticalità del processo informativo. La deliberazione ultima non è demandata a un giornale, a un editore, dietro i quali può celarsi, appunto, un potere interessato.â€
 
Dru


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