24 Dicembre 2013, 07.23
Prevalle
Natale

Serafì strümìt

di Paolo Catterina

Pubblichiamo volentieri, insieme agli auguri per tutti i lettori, questo racconto di Paolo Catterina, che ormai diventato una tradizone, assai gradita, nel panorama delle strenne natalizie prevallesi


Serafì strümìt - Natale 2013
È successo qualche tempo fa. Accompagnando alcuni conoscenti giù nelle scuderie e nel tunnel che serpeggia sotto l’imponente Palazzo che fu dei conti Morani e dei nobili Cantoni, mi fu chiesto da un bambinetto se avessero mai trovato delle ossa in quel posto.
Un posto che, bisogna ammetterlo, un po’ di paura la incute anche ai grandi.
Di solito tutti si interessano alle vicende del tesoro che si racconta fosse sepolto da qualche parte laggiù. Il tesoro, per la precisione, che traspariva nella mappa disegnata sul dipinto di un nobile gentiluomo con tanto di tricorno e con l’indice teso ad indicare il luogo. Proprio lì, sotto le siepi sagomate a labirinto del giardino che sovrasta il tunnel.
 
Quello delle ossa era rimasto un mistero per diversi giorni allorquando, nel metter mano ai primi restauri dell’ala est del Palazzo, i muratori si erano spaventati non poco nel ritrovarsi tra i piedi un mucchio di ossa ingiallite.
Si era pensato subito ai truculenti racconti del “tranello”, il famigerato pozzo con le lame taglienti che tutti conoscono come la terribile attrazione dell’antico Palazzo signorile di Prevalle.
 
La leggenda che accompagna l’esistenza di quella orribile tortura, tramandata da generazioni, vuole che fosse il luogo ove le fanciulle più attraenti del paese venivano gettate dopo aver trascorso la loro ultima serata in danze sfrenate in compagnia del nobile – e feroce – signore del palazzo. La loro fine era segnata sin da quando venivano invitate a quelle feste sfarzose. Cadevano trafitte dalle lame taglienti infisse nelle pareti del gorgo che, si sussurrava esagerando, finiva direttamente alle propaggini dell’inferno.
Infine, dopo qualche giorno di ansiosa curiosità, le analisi delle ossa eseguite dall’ASL di Brescia avevano concluso che si trattava di resti di… maiale.
 
Tutti ci avevano riso su chiedendo perché mai le ossa di un maiale fossero finite là sotto ma alla fine il sollievo per non essersi imbattuti in resti umani era palpabile e unanime. Chissà quanto tempo si sarebbero interrotti i lavori… pensava, poi, sollevato, un assessore zelante.
Quasi tutti gli altri, invece, temevano che si potesse scoperchiare una di quelle storie misteriose che avrebbe reso il luogo malfamato.
Qualcuno infine, pensava addirittura che avrebbe potuto essere un’occasione per attirare curiosi e, perché no, turisti.
Finì tutto nell’oblio.
 
Già, fino a quando la storia di quelle ossa e del tunnel mi è stata raccontata dalla zia Paolina che l’ha tenuta in serbo per tanto tempo. Del resto, si sa, alla sua età, passati da poco i 100, anche certa riservatezza svanisce nel desiderio di raccontare qualche verità come dire, “civettuola”, e mai venuta a galla.
Proprio l’altro giorno la zia ha preso un giro largo per arrivare a raccontare di quando, giovanetta e graziosa morettina, provava certa attrazione per un bel giovanotto, di poco più grande di lei. Aitante e spavaldo nella sua giovinezza dopo essere appena tornato dal militare nei bersaglieri. Proprio dal glorioso corpo aveva serbato l’abitudine di saltare sulla sua bicicletta… al volo o, come si dice, appunto, alla bersagliera.
 
Quel giovanotto bersagliere anche di fama, lungo e allampanato, sempre in giro con quel velocipede da cui saliva e scendeva destando ammirazione, si chiamava Serafino e abitava nel Büs.
Per chi non lo sapesse questo è l’angolo più nascosto di Mosina che all’epoca era ricettacolo di una banda di malfamati ladruncoli capeggiata da un certo “Ciacoletti”. Ma lui, Serafino, era invece un bravo giovanotto che, pur non avendo granché voglia di lavorare, però non avrebbe mai fatto male a nessuno. Insomma la zia, giovinetta che ogni giorno veniva da Celle a Mosina per il rosario, e che ad ogni crocicchio doveva fermarsi per una snocciolata di Pater Ave Gloria, lo vedeva spesso ciondolare tra la piazza e l’osteria delle Tre Corone vicino alla chiesa di San Zenone.
E di quella visione serbava gratitudine sincera a tutte quelle orazioni declamate ad alta voce davanti ogni santella – ed erano davvero tante… - per ordine perentorio delle vecchie zie Minighìna e Catìna.
 
Avrebbe desiderato tanto parlargli o, di più, che lui le rivolgesse la parola ma, purtroppo, quell’invaghimento giovanile rimase tale e la zia, “nobile nubile” si portò sempre in cuore quel sentimento appena abbozzato come un inconfessabile segreto. Solo a 100 anni compiuti avrebbe avuto voglia di riparlarne.
Intanto il giovanotto, Serafì, era spesso al centro delle baruffe e delle avventure che avevano come teatro l’osteria, tenuta all’epoca dalla formosa siùra Nìna, al secolo Domenica Orlandi. Talché era stato ribattezzato con il suo bravo scotom: Carafì.
 
Tra i mille espedienti con i quali Serafino si guadagnava da vivere c’era quello di raccogliere i resti animali dalle strade. Sì, insomma, si dava da fare facendo quello che il Lönare Bressà definisce come una delle professioni perdute, il “ledamér”.
Avendo riportato dai due anni di leva il suo velocipede da bersagliere, di quelli che all’occorrenza si potevano piegare in due e mettersi in spalla, si era procurato un carretto e su questo caricava la preziosa “mercanzia” che trovava sulle strade del paese. Oltre a questa tradizionale attività di “boiasì”, come qui da noi, diversamente che in città era etichettata la professione, Serafino vendeva anche la “spolverina”, il residuo calcare che trovava grattando le pareti degli anfratti sul monte Budellone e che erano usati per “sgürare” stoviglie e pentolame come un detersivo dall’efficacissima azione detergente, o meglio… corrosiva.
 
Insomma, Serafì, si dava da fare come poteva, almeno per mantenere la sua “importante” permanenza nelle osterie del paese e in particolare in quella prediletta delle Tre Corone a Mosina.
Ma a queste attività che potremmo definire in modo estensivo “commerciali” Serafino ne conduceva un’altra quale “consulente” di assoluto primo piano nel panorama locale. Non era immeritato il titolo di “dutùr dei ozèi” per lui che sapeva allevare uccelli da richiamo straordinari, e che ad ogni stagione poteva smerciare mèrli, frànguegn, spenàrcc, sguisète, dùrcc e durdìne di valore assoluto, indiscutibile anche per i cacciatori più esigenti e più intransigenti. Quel titolo onorifico lo aveva meritato sul campo catturando, con ogni genere di arnese, dallo sfersèl ai sèp passando attraverso le reti di piccole e grandi dimensioni. Quello era il suo ramo. Lì esprimeva le sue abilità e la sua professionalità era conosciuta.
 
Una sera capitò persino che anche l’arciprete don Lodrini, grande appassionato di caccia, non resistette al desiderio di prendere da lui una coppia di frazaröle di cui aveva maturato una gran necessità.
Voleva, anche se faticava a confessarlo, superare il suo vicino di pòsta, Bernardì Caldera che ogni mattina lo superava di almeno una ventina di sciòpetàde proprio perché aveva dei richiami di gran lunga migliori.
Così il Reverendo si era risolto, dopo il vespro, ad entrare in quell’antro mondano e più volte tacciato come peccaminoso, per cercare proprio Serafì e chiedergli un paio di richiami di quelli buoni.
 
Non l’avesse mai fatto: appena messo piede nell’osteria che, per chi non avesse chiara la topografia del paese, era in verità proprio dirimpetto alla Casa Canonica di San Zenone, ma nella quale lui non aveva mai osato entrare, il reverendo fu accolto da un silenzio riverente e ossequioso… ma sospettoso.
Cercò subito di Serafì ma non fece in tempo a rivolgersi al suo tavolo che già uno spirito oltraggioso gridò a squarciagola: “ècco: chi pàrla en latì el vànta l’aqua ma ‘l béf el vì…”.
 
La filosofia spicciola e l’arguzia popolare fatte parola furono accolte da risate e grida che avrebbero imbarazzato chiunque ma il buon Arciprete, non solo esperto cacciatore ma soprattutto dotato di intelletto sopraffino e battuta pronta lasciò scemare le grida e poi, con calma, guardando al tavolo del giovanotto insolente, rispose: “dal cantà sa conòs l’ozèl, dal parlà, sa mizura el servèl”.
Di nuovo una scrosciante risata sommerse l’irriverente avventore che aveva osato sfidare “verbalmente” l’arciprete.

Ne era seguita un’accoglienza calorosa e serena per l’amato parroco che aveva poi chiesto, senza mezzi termini, di procurargli un paio di buoni richiami per la sua posta giù ai Feniletti.
Poi però, l’arciprete, caustico e divertito dall’atmosfera calorosa dell’osteria, non aveva voluto rinunciare ad un’ultima divertita e sagace battuta rivolta al suo iniziale denigratore che, ancora imbronciato, sedeva al suo tavolo con un largo cappello. Don Eugenio, uscendo e salutando tutti con bonomia, additando il giovanotto “incappellato” si fermò sull’uscio un attimo e, nell’uscire, disse: “a la zènt se ga èt el capèl… ma mìga el servèl”.
Lasciò, così, nuovamente un alone di grida e risate che sovrastarono impietosamente il giovane irriguardoso.

Una sera, invece, il nutrito tavolo di avventori dell’osteria sentendo come dalla vicina “Premiata Forneria” del Franzoni proveniva un fragrante profumo di dolci, decise di far arrivare un grande vassoio di dolcetti.
Erano dei pasticcini appena sfornati, ve n’erano di diversi tipi, con la glassa, alla frutta, con la crema, ripieni di ogni bontà in quella pasta fresca che scioglieva il palato. Il buon Daniele Franzoni li preparava per diversi clienti di Brescia, famiglie di nobili e di ricchi, roba di gran lusso.
 
Ogni dolcetto era tenuto in uno scodellino di carta perché anche la presentazione a quei clienti esigenti voleva la sua parte. Quella sera all’osteria ne fecero fuori un paio di “cabaré”. Ma nelle sere successive si ripetè la stessa scena e tutti aspettavano in grazia il momento in cui arrivavano le prelibatezze fresche di forno. Dopo qualche serata all’insegna dei dolci, tuttavia, quasi all’improvviso, scoppiò una violenta discussione che sfociò in rissa con tanto di sedie rotte e una grande scazzottata.
 
Non si capì bene come né perché, ma sin dalla prima volta, al momento di pagare ciascuno il proprio numero di pasticcini mangiati, portando gli scodellini vuoti alla siùra Nìna, ne mancavano sempre cinque o sei e persino dieci… Allora erano iniziati i sospetti e le contestazioni… fino ad arrivare alle mani. Nessuno seppe mai, per fortuna, che a mangiare i pasticcini, e poi a mangiarsi anche gli scodellini di carta, era proprio il Serafì, che alla fine, pagava solo per un quarto di quello che si era pappato.
 
Un’altra volta, invece, forte della sua fama di esperto in ornitologia era stato chiamato da un amico cacciatore che aveva lo spénart più bravo che improvvisamente non cantava più. Serafì, inorgoglito dalla richiesta di una “consulenza” così importante aveva subito esibito la sua diagnosi: “el gà la pi-ìda”, intendendo che l’uccelletto non cantasse perché una sottile pellicina bianca “la pi-ìda” gli ricopriva la lingua. Subito, per altro, si era offerto di risolvere il problema come aveva fatto diverse altre volte.
Si trattava di “arpionare” con le unghie quella pellicola e di toglierla dalla lingua in modo da liberare tutta la potenza canora dell’uccello eliminandogli il fastidio.
 
Quel po po’ di conoscenza presentata con tanta spontaneità impressionò il cacciatore che subito gli offrì da bere, una volta, due volte… e ancora molte altre. Così quando si decisero ad andare ad eseguire l’intervento sul tordo sassello Serafì si reggeva a malapena.
Figurarsi a dover togliere una pellicina dalla lingua dell’uccello.
Riuscì a mettere le dita nel becco ma quando tirò… con una certa sgraziata forza… gli rimase in mano la “pi-ìda” con la lingua, la gola e il gargarozzo. Rimasero di stucco entrambi, storditi dal vino e dall’operazione malriuscita. Serafì si allontanò rapido…  lasciando l’uomo a rimpiangere il suo brào spenardì.
 
Questa era, dunque la vita di Serafì: scherzi, bevute all’osteria, giornate trascorse a catturare uccelli da richiamo con tutti i suoi strumenti, legali e meno; la raccolta di boiàse sulle strade e il grattare spolverina ma soprattutto le serate in beànda all’osteria.
Qui i racconti esagerati di caccia, le partite a briscola e a mùra nonché le storie spaventose di spiriti e fantasmi rubavano la scena alla quotidianità semplice e ordinaria.
 
Ordinaria sì ma fino ad un certo punto, però. Fino a quando, appunto, Serafì fece conoscenza con l’avvocato Giangaleazzo Cantoni là al Palazzo di Notica. L’avvocato, personaggio leggendario e riverito in paese e anche fuori, era un cacciatore di cui si favoleggiava.
Un tiratore che aveva vinto gare nazionali e mondiali con una grande passione per i tordi e le peppole. Abitando nell’austero Palazzo ed esercitando la professione di avvocato versata soprattutto, a scrivere le prime leggi e i codici per regolare l’attività venatoria in Italia, era come una sorta di oracolo per i tanti cacciatori di Prevalle.
Se a questo si aggiunge che l’amico migliore dell’avvocato era il Giuseppe Biemmi, “Barbù Bièm”, che gli offriva i terreni migliori con le pòste sistemate come veri roccoli pensare di farselo amico rappresentava un grande onore.
 
Fu l’avvocato in persona a richiedere i servigi di Serafì avendone udito le buone capacità ed ebbe inizio una collaborazione proficua per entrambi.
L’avvocatoGiangaleazzo chiedeva tordi, tordi sasselli e tordine a Serafì il quale, prontamente, gli procurava i migliori richiami ricevendone in cambio ricompense generose e una fama che lo inebriò.
Lo inebriò a tal punto, in effetti, che un giorno, Serafì decise di sfruttare oltre il dovuto le straordinarie capacità canore di un merlo che aveva catturato. Cantava e faceva la primavera in modo eccezionale come non si era mai sentito.
 
L’astuto “uccellatore” pensò bene di proporlo ai suoi clienti migliori ma si ingegnò ad architettare una truffa di cui avrebbe avuto a che pentirsi.
Si rivolse, giusto per provare il suo progetto al siòr Poletti, un vecchio possidente appassionato di caccia… e di donne. Gli portò la sua bella “curidùra” dove cinque o sei merli si rincorrevano e gli fece sentire l’uccello cantare. Quello rimase estasiato dicendosi disposto a pagarlo bene già pregustando una stagione dove avrebbe superato di gran lunga il suo diretto concorrente di caccia, Gioàn Màgher.
Così, mentre l’acquirente contava i soldi presi dal portafoglio nel gilet, Serafì tolse dalla gabbia un altro merlo e lo infilò nella gabbia del Poletti.
Il gioco di sostituire il merlo “brào féss” con altri meno canterini si trascinò per qualche volta e toccò al siòr Maté, al Bianchì, a un Brachì e al Brachinù.
 
Poi successe che anche l’avvocato Cantoni chiamò Serafì per avere un merlo. Ma questi aveva finito i… sostituti. Gli rimaneva solo quello bravo davvero. Oppure… oppure aveva ancora una merla che si era impigliata nella rete quella mattina stessa. Preso dal vortice del giochetto Serafì non ci pensò due volte. Dipinse il becco della merla di un bel giallo sgargiante col colore di certi semi pestati e impastati.
Poi si diresse al Palazzo di Notica per consegnarlo all’avvocato Giangaleazzo. Anche qui, solito copione, fece ascoltare il merlo portentoso ma poi, al momento della consegna, lo sostituì con la merla dal becco “ingiallito”. Ricevette lauta compensa e se ne tornò alle Tre Corone soddisfatto e baldanzoso.
 
Intanto l’avvocato Cantoni, che non era per nulla paragonabile ad un… “tordo”, osservando da vicino il merlo si accorse dell’imbroglio ma, non volendo venir meno a quel codice non scritto che governa i cacciatori e che vuole che non si ammetta di esser stati beffati nell’acquisto dei richiami, decise di ripagare Serafì della sua stessa moneta.
Decise, cioè, di organizzargli uno scherzo terribile e che avrebbe cambiato la vita del giovane truffaldino.
Serafì ebbe un nuovo invito a recarsi dal Cantoni nel suo Palazzo una sera di novembre. Iniziava a far buio ma la richiesta era urgente e il giovane si incamminò certo di andare incontro ad un nuovo buon affare.
 
Entrato dal portone del Palazzo non fu fatto accomodare dalle domestiche dell’avvocato come al solito. Gli dissero che il padrone era impegnato nella contabilità delle granaglie su nei solai e lo accompagnarono negli stanzoni del secondo piano.
La giovane domestica, con il candeliere in mano, lo lasciò nel grande corridoio che conduce al grande magazzino delle granaglie dicendogli che là in fondo avrebbe trovato l’avvocato e il fattore.-
Serafì si ritrovò al buio in quel corridoio ampio e alto. Dai finestroni provenivano solo riflessi di qualche lontana e fioca luce, non aveva paura. Paura no… però, come dire, non si sentiva a proprio agio.
Quelle storie sul Palazzo e sui fantasmi che si raccontavano con spavalderia con gli amici ecco, gli procuravano un pochino di agitazione.
 
Avanzava piano nel lungo corridoio avvicinandosi alla porta a due battenti del magazzino. Si ricordava che c’era stato ancora e in quella grande stanza imbiancata con calce liscia – per impedire che i topi si arrampicassero sui muri, si diceva – si vedevano centinaia di segni lasciati col carboncino. Erano aste e astine tagliate con una barra a segnare i sacchi di grano entrati e usciti dal deposito. Una contabilità ingegnosa e facile da tenere su quelle vaste pareti.
Ma adesso Serafì era intimorito, non si era mai trovato in quelle stanze al buio…
Quando stava per metter mano sulla maniglia ecco che la porta si spalancò aprendo le due ante e davanti a lui si stagliò un gigantesco scheletro che agitava tutte le ossa!
 
Era enorme, altissimo, quelle ossa bianche spiccavano nel buio… spettrale.
Serafì gridò, se la diede a gambe… corse giù dalle scale in preda al panico… rotolò per i gradoni, si lanciò fuori dal portone del Palazzo correndo con un affanno che non si placava.
Rimase senza fiato in prossimità del sagrato della chiesa e fu ritrovato quella sera stessa dai suoi compari che uscivano dall’osteria. Non riusciva a riprendersi, nemmeno dopo aver ingollato grappa e vin brulé. Era bianco come uno straccio. Non parlava. Ansimava e gesticolava ma nessuno capiva quel che voleva dire.
 
Lo accompagnarono a casa e lo misero a letto promettendogli di tornare a sorvegliarlo il mattino seguente.
A Palazzo Cantoni, nel frattempo, quella sagoma dell’avvocato Giangaleazzo e il suo fattore si erano tolti il telo scuro su cui avevano fatto dipingere dall’Abele Baruelli le ossa di un enorme scheletro, con un teschio che digrignava i denti e al posto delle orbite aveva due inquietanti fiammelle giallastre. Ridevano soddisfatti per aver reso pan per focaccia a quell’imbroglione spacciatore di “merli” tarocchi.
Serafì però fu “toccato” da quello spavento frutto di uno scherzo crudele. Non si riprese mai più. Faticò non poco prima di essere in grado di parlare e nella parola, così come nella mente, non fu mai più come prima.
 
Stentava a mettere insieme le parole che sembrava non volessero uscirgli dalla bocca. Quando poi uscivano erano stentate, smozzicate, era come se inciampassero nella lingua, nei denti o nel palato. Per farla breve, da quella tremenda sera, Serafì divenne balbuziente.
“Ta cöchèzet come ona nèdra möta…” lo schernivano i vecchi compari che sempre più tristemente incontrava all’osteria.
Ormai gli era passata la voglia e l’entusiasmo per la vita, era depresso e additato come un poveraccio cui le capacità mentali facevano difetto.
Gli avevano poi raccontato che quello spavento era frutto dello scherzo dell’avvocato così lui, passata la paura, era stato preso dalla delusione e dallo sconforto per essere stato umiliato così pesantemente.
 
In verità, però, la mente funzionava ancora benone. Ma la balbuzie era rimasta.
Ciondolava per il paese, le sue attività erano ridotte al minimo vitale ma, soprattutto, girava al largo dal Palazzo dei Cantoni. Ah come girava al largo… il solo sentirlo nominare gli procurava fastidio.
Eppure, ogni giorno di più, cresceva in lui anche un certo desiderio di vendetta.
 
Nacque all’improvviso la sua piccola rivincita. Il giorno che ascoltò per caso, si era sul sagrato della chiesa, il maestro Biemmi chiedere al Chiodi di Acquatica di fargli il trasporto di una damigiane di grappa e alcune di vino all’avvocato Cantoni. Il Chiodi era un carrettiere ed eseguiva tutti i trasporti di mercanzia in paese.
Serafì aprì bene le orecchie sentendo che la settimana successiva il Biemmi, titolare di una rinomata distilleria a Mosina, avrebbe dovuto consegnare i suoi pregiati distillati al Palazzo perché l’avvocato stava riorganizzando la sua cantina. Doveva festeggiare la nascita della sua ultima figlia con una grande festa e dopo aver piantato uno dei due grandi pini che ancora oggi troneggiano nel giardino del Palazzo di Prevalle.
 
Il solo evocare la cantina di quel Palazzo gli fece scoccare mille scintille… Così…detto… fatto. Serafì preparò il piatto per la sua nèmesi studiando nei dettagli un piano che non avrebbe potuto raccontare a nessuno… anche perché dall’agitazione “tartagliava” ancora di più del solito. Sparì dalla circolazione per diversi giorni, fece il giro di tutti i bechér e i copasì dei dintorni in cerca di… ossa di maiale. La cosa non sorprendeva più di tanto, tanto ormai strambo e “originale” era considerato un po’ da tutti.
Il fatto finale ebbe luogo una domenica mattina. Serafì sapeva bene che l’avvocato aveva l’abitudine, al ritorno dalla caccia, di passare in cantina per sorseggiare un bicchierino di grappa. Dopo aver lasciato i fucili nella scuderia il Cantoni imboccò le scale che portavano al tunnel e immettevano nella grande “giàséra” che fungeva da cantinone.
 
Aprì la portella cigolante e fece per avviarsi verso il ripiano delle grappe dove teneva un bicchierino ma come alzò il braccio percepì dall’angolo più buio dello stanzone un movimento di ossa che sbattevano l’una contro l’altra e nel mentre uno scheletro informe prendeva il corpo di una creatura orrenda che si dirigeva verso di lui.
Aveva un teschio aguzzo e i grandi denti sbattevano al ritmo di una danza che smuoveva un corpo alto e bislungo. Aveva faticato non poco Serafì a legare tutte quelle ossa ma aveva fatto un lavoro egregio. Soprattutto quando aveva tirato la corda si era alzato come una vera, bestia da paura.
 
L’avvocato, scaraventato il bicchierino per terra aveva salito le scale quattro per volta. Era arrivato nel salottino di casa smorto come un cadavere e faticò non poco a riprendersi.
Aveva pudore a raccontare ai suoi la vista orrida di quell’animale ossuto che lo stava per aggredire giù nelle cantine del Palazzo ma, una volta seduto sul sofà l’insistenza della moglie, del fratello e di tutta la servitù gli fece vuotare il sacco.
 
Erano ancora tutti intenti ad ascoltare il racconto irruento dell’avvocato quando arrivò un vociare dal giardino del Palazzo e in un attimo si materializzò nel salottino anche il fattore, tutto agitato.
Aveva visto un uomo correre a gambe levate fuori dal Palazzo e credendo che avesse rubato qualcosa dalla cantina era sceso trovando però… solo un mucchio di ossa di maiale legate con uno spago nero.
Ci rimase male quando, a quelle parole, l’avvocato e tutti gli altri si misero a ridere a crepapelle. Di Serafì, comunque, dopo quel fatto, non si seppe più nulla. Anche la zia Paolina, ancora rammaricata, crede che sia emigrato in America lasciando il paese per sempre.
 
Quanto alla cantina di Palazzo Cantoni, l’avvocato Giangaleazzo, ad evitare altre sorprese, decise di chiudere tunnel e cantine. Fece portare otto carri di terra e pietre “murando” quell’angolo che, ossa o non ossa, non lo rendeva più tranquillo.
Oggi solo quelli che non conoscono la storia di Serafì chiedono ancora perché le scale che scendono sotto Palazzo Morani Cantoni finiscono contro la “giaséra” murata e l’imbocco al tunnel risulta tumulato.
 
Paolo Catterina
 
In foto:
. Osteria delle 3 Corone a Mosina
. L'avvocato Giangaleazzo Cantoni
. Palazzo Cantoni a Prevalle
 
 

 



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