21 Febbraio 2017, 09.48
Prevalle
Storie di paese

«Il giorno in cui ricevetti la cartolina...»

di Federica Ciampone

Angelo Maccarinelli, prevallese, ci racconta alcuni dei suoi ricordi di guerra. Una storia che parla di fortuna e di destino, di coraggio e di determinazione


Due occhi azzurri penetranti e il sorriso di chi ha affrontato tante difficoltà senza che questo ne abbia scalfito l’indole gentile. È questo che ci colpisce di Angelo Maccarinelli, classe 1926, quando ci accoglie nel suo salotto e ci invita a sederci. La nitidezza del suo racconto è tale che improvvisamente ci sembra di vederlo, appena diciottenne nella Prevalle degli anni ’40, mentre riceve la cartolina di arruolamento e pensa che l’unica cosa da fare sia accettare con rassegnazione il suo destino. Le cose, tuttavia, non andarono proprio così.

“Il giorno in cui ricevetti la cartolina stavo lavorando al canale della centrale di Prevalle Sotto, in campagna. A mezzogiorno tornai a casa per pranzo e la mia povera mamma me la consegnò: dovevo presentarmi al distretto e partire per la Germania. Mangiai qualcosa e tornai al lavoro, preoccupato e in preda all’ansia, con la mia cartolina sottobraccio. Quando la mostrai al signor Sossi, il mio datore di lavoro, lui sgranò gli occhi e mi disse: ‘No, assolutamente no! Tu non ci vai in Germania, ti ucciderebbero! Non ci vai!’. Io replicai che dovevo andarci per forza, che se mi fossi rifiutato di partire le brigate nere mi avrebbero portato in Castello e mi avrebbero ucciso loro. Sossi – che era un fascista di Virle Treponti – quel giorno cambiò il mio destino. Scrisse un biglietto, me lo consegnò e mi mandò a Rezzato da un certo signor Gamba. ‘Fagli avere questo messaggio. Vedrai che ti farà l’esonero’, mi disse. ‘Dovrai partire lo stesso, però almeno potrai rimanere in Italia’.

Il signor Gamba fece come Sossi aveva previsto e mi mandò a Formigara, in provincia di Cremona. Mi diede l’indirizzo e il giorno seguente io partii, alle 7 del mattino, con la mia bicicletta; arrivai la sera alle 18. Nei mesi seguenti lavorai sotto i bombardamenti: costruivamo ponti sopra il fiume e di notte dovevamo dormire negli edifici scolastici in letti a castello di paglia. Eravamo in 107; i più sfortunati dormivano a terra e mangiavano paglia tutta la notte!

Tornai a casa alla Vigilia di Natale, sfidando la neve alta quasi un metro un po’ in bicicletta e un po’ a piedi, finché non passò un camioncino del latte che mi caricò e mi portò fino ad un tram; mi nascosi con la mia biciclettina in cima al portabagagli, perché se mi avessero scoperto mi avrebbero sicuramente ucciso credendomi un disertore. A casa ad aspettarmi c’era la mia mamma.

Il giorno di Natale andai all’osteria di Celle, in via San Pietro, con due amici. Bevemmo un bicchiere di vino insieme e mi chiesero dove ero stato negli ultimi mesi e cosa avevo fatto. Stavamo chiacchierando quando all’improvviso entrarono due fascisti delle brigate nere, di quelli che stavano di guardia alle vecchie scuole di San Zenone. Non feci in tempo nemmeno ad alzarmi: iniziarono a picchiarmi con violenza e uno di loro mi trascinò fuori e mi mise in piedi contro il muro di fronte all’osteria, puntandomi contro una pistola. Uno dei miei amici iniziò a gridare ‘Lasciatelo stare! E’ appena tornato e ha il permesso di stare qui!’.

Un cliente dell’osteria conosceva il capitano, che era fidanzato con una ragazza di Celle e frequentava spesso il locale, così andò subito a chiamarlo. ‘Vieni fuori a vedere, stanno per uccidere un uomo’, gli disse. Il capitano corse fuori e chiese ai soldati: ‘Avete chiesto i documenti?’. Loro risposero che no, non avevano chiesto nulla, e il capitano gli intimò di lasciarmi andare. Mi salvò la vita. Il lunedì successivo avrei dovuto tornare a Formigara, ma non lo feci: rimasi nascosto in solaio fino al 25 aprile 1945. E quel giorno ci fu una festa grandissima. Nemmeno uno dei fascisti delinquenti ebbe il coraggio di scendere in piazza quel giorno, non si fecero vedere per sei mesi! Ricordo che andammo a recuperare con la gavetta gli avanzi del cibo degli americani: avevamo sofferto così tanto la fame!

Dopo la guerra rimasi a casa per circa un anno. Avevo trovato lavoro da un contadino che mi pagava 70 lire al giorno per lavorare nei campi dall’alba al tramonto. Un giorno passò di lì in bicicletta un mio amico, il signor Glisenti, e mi offrì di andare a lavorare con lui a Brescia per 90 lire all’ora: feci i salti alti così! Era davvero una grande fortuna a quei tempi.

Lavorai da Glisenti finchè non dovetti partire di nuovo, all’età di 21 anni. Mi visitarono e mi suggerirono di unirmi ai Carabinieri; mi dissero che per due anni avrei fatto il signore, che era una grande opportunità. Io rifiutai e decisi di arruolarmi nell’artiglieria alpina. ‘Avrai sempre il cannone sulle spalle!’, mi dissero. E fu proprio così: mi misero in una batteria da 120 e marciammo senza sosta per tutto il Sud Tirolo in mezzo alla neve. Attraversammo Bolzano, Merano, Brunico, San Candido. Nel frattempo mi ero fidanzato, e scrivevo lettere alla mia futura sposa ogni quindici giorni, a volte anche ogni tre settimane perché spesso non sapevo dove mi avrebbero mandato di preciso e non volevo darle informazioni sbagliate. Ci sposammo nel 1949â€.

Tanta fortuna, ma anche tanto coraggio: il coraggio che ci volle ad affrontare uno dei periodi più bui della nostra storia, e quello che è servito oggi ad Angelo per raccontarlo a noi nei dettagli, perché possiamo mantenere vive queste memorie preziose.
 



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