16 Febbraio 2018, 13.50
Paitone Valsabbia
Lutto

Ciao partigiano Spinetti

di red.

Saranno celebrati questo lunedì alle 15 a Paitone i funerali di Mario Spinetti, scomparso all’età di 99 anni. Mario è un eroe della Resistenza. Riportiamo uno scritto di Massimo Mattei, che l’aveva intervistato quindici anni fa


Mario Spinetti è una figura importantissima nella Resistenza bresciana, anche se la sua attività si è svolta tutta lontano da Brescia, nella zona del Piacentino e poi a Genova, dove partecipò alla liberazione della città con la divisione Cicchero.

Da anni presidente della sezione ANPI della Bassa Valsabbia, Mario Spinetti è stato un infaticabile testimone dei tragici fatti che in prima persona ha vissuto e che in tantissime occasioni ha riportato agli studenti delle scuole.
Persona dal grande rigore morale, ha saputo infondere in chi lo ha conosciuto l’amore per la libertà e una visione della vita legata a quei valori per cui lui aveva combattuto.

Quello che segue, lungo ma interessante, è il racconto derivante da un’intervista che Mario Spinetti rilasciato una quindicina di anni a Massimo Mattei, ora sindaco a Provaglio Valsabbia.
Uno scritto che poi è stato inserito nel libro fatto pubblicare dall’ANPI della Bassa Valsabbia nel 2004 dal titolo “25 Aprile e dintorni – il faticoso cammino dalla Resistenza alla Democrazia nella Bassa Valsabbia”.

Il Partigiano Mario                       

Come si può passare in poche ore da una vita normale ad un’esistenza spericolata che nel corso di quasi due anni porta più volte a vedere in faccia la morte, quella stessa morte che ha raccolto molti dei propri compagni di viaggio?      
Mario Spinetti, nativo e abitante di Paitone, classe 1918, oggi Presidente della Sezione ANPI della Bassa Valsabbia, testimonia, a quasi 60 anni da quei fatti, con parole lucide ed ancora intrise di dolore quegli accadimenti che lo videro protagonista fra i partigiani in Val di Nure, nel piacentino.

Non si nasce eroi, lo ammette anche Mario, che ricorda così quei fatti che segneranno profondamente tutta la sua esistenza:

“Mai avrei potuto immaginare, neanche con la più fervida immaginazione che caratterizza la personalità dei giovani, quello che mi sarebbe accaduto, e quando ripenso alla mia esistenza prima di aggregarmi ai partigiani mi rivedo un normale ragazzo di paese: poca scuola, lavoro come cavatore di marmo gia a 12 anni e tutte quelle attività che il regime fascista imponeva ai giovani di quel tempo, che altro non conoscevano se non la storia del Duce e del Fascio.

Dunque fui prima Balilla, poi Avanguardista e venni preparato al servizio militare come tutti i miei coetanei.
Erano i momenti che precedevano la guerra ed infatti il Servizio Militare mi chiamò nel maggio del 1939 e fui arruolato nel Genio Pontieri. 
Non ci rimasi per molto, grazie all’interessamento di una persona presso il Comando Militare fui esonerato dalla leva, ma non per questo rispedito a casa: mi aggregarono infatti alle squadre di operai che l’Organizzazione tedesca TODT utilizzava per compiere lavori manuali in varie località italiane.

In teoria eravamo liberi lavoratori, in realtà eravamo costretti a fare ciò che serviva ai tedeschi, senza per questo ricevere alcuno stipendio.
Mi ritrovai dunque in Emilia, a Cassano di Ponte dell’Oglio, in qualità di capocantiere ed insieme ad altre 300 persone circa, in una cava di minerali; la vita era dura, si mangiava poco e si dormiva in baracche, ma almeno non si era in guerra… 
 
“Un incontro particolare” 

Dopo l’otto settembre del 43, queste sono cose ormai risapute, l’esercito italiano si divise fra chi decise di continuare la guerra con la Repubblica Sociale, fra chi si arruolò nella Resistenza e fra chi semplicemente si diede alla macchia, diventando Ribelle, e il contraccolpo di quegli eventi si fece udire anche nel nostro campo.
Numerosi infatti erano i giovani che iniziavano a parlare di organizzazioni partigiane, ed anch’io mi ritrovai, pur non desiderando allora sbilanciarmi molto, a discutere di questo con altri componenti della mia squadra.

Accadde però una notte, purtroppo non ricordo la data esatta, era passata da poco la mezzanotte, che mi svegliarono alcuni dei ragazzi della mia baracca e mi dissero che fuori c’era il “montenegrino”, un partigiano della Brigata “Stella Rossa” che operava sulle montagne della zona.
Voleva vedermi e io sarei dovuto uscire dalla baracca a parlargli, così almeno insistevano, riuscendo a farmi superare la naturale diffidenza verso un incontro così improvviso.

Il Montenegrino fu molto esplicito, proponendo di bruciare le baracche e fuggire sui monti, ed io sarei dovuto essere un suo tramite verso gli altri componenti della squadra, in poche parole avrei dovuto convincerli.
Non mi fu possibile prendere così su due piedi un decisione tanto importante e che coinvolgeva anche il destino di molte altre persone, per cui chiesi tempo per decidere.

Di tempo il Montenegrino mi diede solo un giorno e la notte successiva, immaginate che pensieri mi passarono per la testa in quelle ore, riferii che intendevamo rimanere al campo ancora per un po’ di tempo: stavamo infatti preparando una grossa consegna di materiale e fino a che questo non fosse stato pronto non vedevamo il pericolo che ci potessero trasferire ad altre destinazioni, o peggio deportarci in Germania.  

“Momenti decisivi” 

Man mano che il materiale veniva preparato avvertivo sempre di più l’ansia per quello che sarebbe potuto succedere e mi chiedevo quale era veramente la cosa più giusta da fare, anche se poi i fatti si succedettero con una dinamica direi quasi inevitabile.
Quando il materiale da consegnare fu pronto vennero infatti due camion tedeschi per prelevarlo; evidentemente i tedeschi si sentivano sicuri, dato che non c’erano scorte armate e i due autisti erano semplicemente armati di pistola. 

La notte che doveva precedere la partenza del materiale fu quella decisiva, che mi vide compiere il passo fondamentale verso quello che doveva essere il mio futuro, di uomo libero al servizio delle idee di libertà ed uguaglianza che ancora si stavano facendo strada dentro di me, che avevo avuto solo la formazione fascista e che mai avevo avuto modo di pensare a qualcosa di diverso.
Dunque quella notte si presentarono al campo tre partigiani mandati dal Montenegrino, che aveva dato loro un preciso compito: uccidere gli autisti e bruciare i camion.
Promisi loro che se non avessero ucciso gli autisti, ma si fossero limitati a bruciare i camion, li avrei seguiti e avrei convinto anche qualcun altro a farlo insieme a me.

Così avvenne, i partigiani disarmarono facilmente i due autisti e ancora ricordo la velocità con cui questi fuggirono, forse increduli di avere salva la vita o comunque timorosi di un nostro tardivo ripensamento.
I camion vennero bruciati ed io riuscii a convincere altri quattro ragazzi a venire con noi, divenendo in tal modo ricercati ed in pericolo di vita.

Camminammo quasi ininterrottamente per due giorni attraverso le montagne, e la nostra prima destinazione fu il paese di Pradovere, dove nei fienili e nelle cascine disperse  della zona c’erano circa una cinquantina di partigiani.
Venni a sapere che erano diverse le brigate partigiane che operavano in zona, e che a volte queste venivano rifornite di materiali attraverso lanci di paracadute effettuati dagli aerei degli alleati, con cui alcune di queste brigate mantenevano i contatti.
In generale l’organizzazione era però scarsa e dunque le iniziative intraprese furono poche, mentre molti furono invece i rastrellamenti effettuati dai tedeschi che catturarono numerosi partigiani e ribelli.

La mia Brigata era la “Valnure”
, comandata da Pietro Inzani, mentre la vicina Brigata “Caio” era comandata dall’Istriano.
Ricordo una delle prime operazioni partigiane: il 21 maggio 1944 i Partigiani assalirono le forze fasciste di Ferriere.
Era una domenica, giorno della SS. Trinità; le forze della Repubblica Sociale erano costituite da alcuni carabinieri della locale caserma e da e da quattro soldati della Milizia Nazionale Fascista, alloggiati presso il Dopolavoro.

I partigiani assalirono entrambe le postazioni alle dieci la mattina con fucili, mitra e bombe a mano e minarono la caserma dei carabinieri per farla saltare.
Dopo due ore di sparatoria l’Istriano si recò in chiesa dal Parroco e gli chiese di andare dai carabinieri e dai militi, dicendo loro che se si fossero arresi avrebbero avuta salva la vita.
Il Sacerdote riuscì a convincere i carabinieri e successivamente anche i tre militi superstiti ad arrendersi, abbandonare le armi e fuggire, cosa che fecero rapidamente. In poco tempo i partigiani prelevarono tutte le armi, le munizioni e le vettovaglie disponibili, nonché tutto ciò che potevano ritenere utili e quindi tornarono sui monti.
In seguito il paese venne abbandonato dai carabinieri, dal Commissario comunale, dal Segretario e dagli impiegati; unica autorità rimasta era il Parroco, don Luigi.

L’assalto dei partigiani costò però caro agli abitanti di Ferriere, perché verso la fine di luglio del 44 tornarono in paese soldati italiani e tedeschi che, alle quattro di mattina e a piedi perché i partigiani avevano fatto saltare il ponte, circondarono le case e catturarono tutti gli uomini che ritenevano validi per lavorare.
Furono così tristemente prese per essere deportate in Germania 22 o 23 persone, alcune delle quali fuggirono durante il tragitto, mentre altre dovettero affrontare la dura esperienza dei lager.

“La morte di Pietro Inzani”

Vennero tempi tristi anche per noi; nell’inverno 44/45 la nostra Brigata fu praticamente distrutta, ed era formata da alcune centinaia di partigiani, a forza di rastrellamenti e conflitti a fuoco.
Fui fortunato a salvarmi a Canadello, dove invece trovò la morte Pietro Inzani, il mio comandante, per mano dei tedeschi ed in un modo barbaro.

Il 5 gennaio del 45 i tedeschi giunsero nel paese di Canadello e proprio quel giorno io passai di lì, a casa di Rosina Draghi, che mi diede da mangiare e a cui lasciai il mio indirizzo, per scrivere a casa mia in caso “di disgrazia” e lei mi indirizzò per un sentiero che mi permise di evitare la colonna tedesca che stava arrivando, stando sdraiato nella neve e coperto con un paracadute, con i soldati che mi passavano a pochi metri. 
La casa e la stalla di Rosina erano piene di munizioni, forniteci attraverso i lanci dei paracaduti alleati, che i partigiani avevano abbandonato nel pomeriggio.

Inzani e Ginetto Bianchi, il farmacista di Bettola, cercarono dei buoi, per portar via armi e munizioni e non farle trovare ai tedeschi, ma ad un certo punto si trovarono i tedeschi alla porta e tentarono di fuggire: Bianchi riuscì, aiutato dalla Rosina a saltare da una finestra, mentre Inzani inciampò, fu ferito, si rialzò e fuggì.
La casa di Rosina fu distrutta dall’ira tedesca e la stessa donna subì 11 ferite, con una pallottola che le attraversò il ventre; si salvò solo grazie ad una botola che dalla cucina dava nella sottostante stalla, evitando la morte.

La drammatica fine di Inzani è nota; ferito da un colpo che lo passò da parte a parte riuscì a trascinarsi e a trovare rifugio in una casa, dove venne curato, per quello che si poteva, e nascosto nella cappella del cimitero.
Il mattino dopo fu facile per i tedeschi osservare movimenti sospetti e catturarlo e lui, anche questo è risaputo, rivendicò con orgoglio di essere un Partigiano e di combattere per la libertà della Patria.
Lo uccisero a colpi di calcio di un fucile e lo gettarono in un canale dove rimase a testa in giù nella neve finchè la pietà popolare ne ricompose il corpo e gli diede sepoltura.

La memoria di questo fatto
mi ha accompagnato per tutta vita ed  è ancora oggi nei miei pensieri più frequenti, perché ad Inzani ero affezionato e nel 1999 gli ho costruito un monumento alla memoria, laggiù a Ferriere.
Ricordo anche i numeri dei nostri caduti e dei feriti in quel terribile inverno: 168 i morti e 201 i feriti.

“La Liberazione di Genova”


 Fu così che la brigata “Valnure” si dissolse e per forza di cose non ci restò che aggregarci a chi già bene conoscevamo: la brigata “Caio” comandata dall’istriano e facente parte delle “Brigate Garibaldi” , di stanza nella vicinissima Liguria e con base a Santo Stefano D’Aveto, in provincia di Genova.
L’organizzazione di questa nuova brigata era tutt’altra cosa rispetto a prima, infatti la brigata “Caio” era inquadrata nella Divisione “Chicchero” insieme a molte altre brigate con centinaia di uomini e armi di tutti i tipi.

Fummo addestrati ad usare queste armi, io in particolare ricevetti addirittura un bazooka ed imparai ad usarlo; scopo di queste esercitazioni, fatte in territorio ormai controllato dai partigiani, era prepararci per la liberazione nientemeno che della città di Genova, senza attendere l’arrivo degli alleati.
Dalle nostri basi nei monti ci trasferimmo a Genova con tutto il nostro armamento, naturalmente a piedi, per un percorso montuoso di circa 40 Km che da Santo Stefano D’Aveto, attraverso il Passo Forcella, ci condusse prima a Chiavari e poi alle porte di Genova, che per ordine del Comando Unico venne accerchiata.

La battaglia che seguì nei giorni successivi fu sanguinosa
, si combattè casa per casa, strada per strada, con molti morti e feriti da ambo le parti.
Durante uno di questi scontri una bomba a mano esplose nelle vicinanze del mio gruppo ed anche io fui ferito da una scheggia al ginocchio destro e per questo fui portato fuori dalla zona dei combattimenti e ricoverato all’ospedale militare.
Nel frattempo il comandante tedesco di Genova, generale Eingold, così mi pare si chiamasse, si arrese ai partigiani, per il tramite del cardinale Botto, sancendo così la caduta dei tedeschi e la Liberazione di Genova, prima città italiana ad essere liberata dalle forze partigiane.

Ci furono ancora momenti delicati quando il comandante tedesco del porto di Genova comunicò ad Hitler l’avvenuta resa delle sue truppe e questi per vendetta ordinò di minare il porto e provocare più danni possibile.
Fortunatamente per Genova, ed inevitabilmente direi, perché non avrebbero avuto nessuna possibilità di avere salva la vita se avessero eseguito quell’ordine, gli ultimi ufficiali tedeschi non ancora arresi, alloggiati all’Hotel Bristol, presero la decisione di non obbedire e il porto fu salvo.

A guerra finita tornai a fare il cavatore a Paitone
, riprendendo la mia normale esistenza con quella che era divenuta mia moglie, conosciuta laggiù a Ferriere.
Solo dopo una ventina di anni lo Stato si ricordò di me, e per quella ferita in combattimento mi venne assegnata la Croce di Guerra.”

Massimo Mattei



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