12 Febbraio 2020, 07.15
Eppur si muove

Paralipomeni di «Quando il pesce andava a fondo»

di Leretico

Leggendo la lettera del 18 ottobre 2019 che il professor Alfredo Bonomi ha scritto a Dario Collio, autore del romanzo “Quando il pesce andava a fondo”...


... per farne recensione positiva, e comparando quest’ultima con altri giudizi, altrettanto autorevoli che definivano il libro “una serie di pettegolezzi in salsa revisionista”, per la estrema differenza nelle opposte sintesi, con una certa curiosità ho voluto leggere anch’io il testo di Dario Collio.

Trattandosi di “romanzo” e avendo sin dalla copertina assunto il tratto della “storicità”, ero curioso di scoprire se si trattasse di un “romanzo di trama” oppure un “romanzo di personaggi”, per come li distingue Umberto Eco in una dei suoi saggi sul romanzo.
Mi aspettavo, come credo qualsiasi altro lettore medio, che il racconto si sviluppasse maggiormente sul piano dei personaggi, i quali, vivendo in una trama di fatti e azioni personali, subissero l’influenza degli avvenimenti circostanti determinanti per un loro cambiamento interiore.

Mi aspettavo che la grande storia restasse in sottofondo - più o meno sfocato -, insieme alla piccola storia dei fatti locali, quella che poi si disegna nei racconti degli anziani e si sedimenta nella cultura dei luoghi. Leggendo il libro, si percepisce il tentativo di mettere insieme questi racconti, ma altrettanto si percepisce una certa fretta nel cucire i collegamenti tra gli eventi, una certa fatica nel tenerli uniti.

È come se l’autore, ad un certo punto, rivelasse una vera e propria difficoltà a mantenere la narrazione per un lungo periodo, abituato allo schizzo breve forse per eredità della professione giornalistica, forse vera e propria carenza. Per questo ci tocca manifestare la nostra delusione, tanto grande quanto era l’aspettativa generata dalla recensione del professor Bonomi.

L’effetto finale sembra essere molto lontano dalle intenzioni, o per lo meno non sembra aver mantenuto le promesse iniziali. I personaggi purtroppo non si evolvono, durante il racconto non maturano in una nuova consapevolezza. Sono lì, appiattiti sulle loro idee precostituite, fanno da segnaposto stereotipato all’idea che l’autore ha già configurato per loro sin dall’inizio. Si potrebbe addirittura considerarli vittime di ciò che l’autore voleva rappresentare: dei don Camillo fuori dallo spazio e, soprattutto, fuori tempo.

Il primo capitolo fa eco all’”Addio monti” del Manzoni
: dove là compare il Resegone, qui il Sassello, il Baremone e il Maniva; dove là sono le poetiche rive del lago di Como, qua l’Eridio nello “smorto sole”. E potremmo dire che il parallelo con i “Promessi sposi” continui anche oltre, ma aspettiamo, non anticipiamo troppo le cose.

Prima difficoltà generale: il racconto si svolge a salti, con molti personaggi, forse troppi. I nomi bizzarri si accalcano, si spingono l’un l’altro tra le righe, pretendono attenzione ancorché non siamo in grado di mantenerla così a lungo come l’autore pretenderebbe. Infatti la memoria, dopo alcune pagine, comincia ad affaticarsi, la strada si fa erta ed è facile perdere il filo.

I personaggi che avevi lasciato all’inizio da qualche parte, ricompaiono dopo molte pagine a dir qualcosa di importante e il tutto si fa in quell’istante confuso, perché non si riesce a ricostruire, a rimettere i tasselli al posto giusto, così spintonati in avanti dall’avanzare di altri eventi, a volte scollegati, altre volte, quando la linea del racconto si è persa in troppe piccole inutili cose, decisamente secondari

Inoltre, più di una volta si ha la sensazione che alcuni di questi personaggi vengano chiamati a parlare non per portare avanti il racconto, ma per permettere all’autore di inserire una nota storica: non la nota al servizio del racconto quindi, ma il racconto al servizio della nota. Peccato, l’effetto generale non è dei più gradevoli, ci si sente un po’ costretti, per non dire manipolati.

Nelle primissime pagine troviamo la presentazione dei protagonisti principali: il primo, il più importante, è don Giustino. Lo troviamo nel mezzo di un accesso di rabbia. È accusato dai partigiani di essere un collaborazionista.
I partigiani gli hanno fatto trovare un messaggio anonimo proprio nella sua chiesa. Don Giustino non accetta l’accusa, reagisce scompostamente alla fine della messa.

Lo sentiamo gridare dal pulpito: «… quando eravate rastrellati alla centrale del Melandri, l’estate scorsa, dopo che i partigiani avevano accoppato il milite Rossi col Giusipù e i repubblichini volevano attaccare via qualcuno di voi, chi pensate sia corso a Brescia a chiedere l’aiuto del Vescovo per cercare di salvarvi la pelle? E chi pensate – riprese in un silenzio tombale – possa essersi mosso per dare una calmata alle SS piombate in paese quello stesso giorno?» (pag. 19).

E ancora: «E chi è che – fece ancora più convinto – cerca di tenere a freno, da una parte quelli sui monti, che vogliono venir giù a fare macelli, che poi ne paghiamo le conseguenze noi tutti e, dall’altra quelli all’albergo con i tedeschi [i militi della GNR] che vanno a cercarli nei fienili e negli alpeggi, convinti così di vincere la guerra? La guerra, i tedeschi, l’hanno già persa e, se si lasciano andare [via] senza altre stupidate, è possibile che noi non si sia costretti a piangere altri morti!» [i corsivi, non presenti nel testo originale, sono nostri]

Ecco, qui sopra si condensa tutto il “romanzo”, qui si rivela l’impostazione ideologica, il suo “fondamento morale”, la sua chiave di lettura. Tratteniamo in memoria questa intuizione, per verificarla nel corso della lettura, fosse mai che ci siamo sbagliati.

Dopo che abbiamo scoperto che don Giustino è stato gravemente minacciato, ci aspettiamo che accada qualcosa, che la minaccia abbia una conseguenza.
E invece nulla, non accade nulla, nemmeno più in là, quando il “romanzo” ha già preso il largo. E come se l’autore avesse descritto una pistola carica in tutti i dettagli, ma si sia dimenticato di farla sparare.

È ora il turno del maggiore Schubert, il tedesco “buono”, quello che chiude un occhio per salvare delle vite. Il “buono” ama la musica e la musica ama il “buono”.
Il maggiore Schubert è cattolico, suona l’organo e incarna la bontà e la bellezza importunate dalla guerra. Nonostante il cattivissimo Pippo bombardi impunito il paese di Idro, la musica vola più in alto, ignora persino le bombe. Il buono contro il cattivo vince sempre. Se poi è tedesco è ancora meglio. Se poi è amico del potente generale Karl Wolff, ancora di più.

Insieme al maggiore Schubert, che si muove nel racconto davvero come un prete, anche se di posizione curiale più elevata, quasi un vescovo insomma, incontriamo lo Schindler di Idro. Si tratta di Alberto Bertini, l’imprenditore “buono” (anche lui!) che si muove sempre in coppia con il cugino Nazzareno, suo braccio destro e autista.

Il Bertini, alias Schindler, impiega nella sua azienda ben duecento operai in più del necessario, ufficialmente per metterli al servizio dei tedeschi della Todt, in sostanza per salvarli dalla leva obbligatoria voluta dalla Repubblica sociale.

E noi ci domandiamo: perché l’autore dipinge questo personaggio come lo Schlinder della Valle Sabbia? Egli stesso ammette, con le parole di Schubert a pagina 26, che i tedeschi chiudevano un occhio sulle assunzioni perché avevano non solo la strategia formale di far avanzare i lavori della Todt più speditamente, ma anche il nascosto intendimento di diminuire il numero di potenziali ribelli sulle montagne, attraverso l’offerta di una paga stabile per un gran numero di persone, cosa a cui, in quei giorni di guerra, era difficile rimanere indifferenti.
Una risposta potrebbe essere l’esigenza “tecnica” di allineare il Bertini alla “santità” degli altri personaggi, in modo che fosse più facile alla fine chiamarli tutti “eroi”.

Se poi volessimo approfondire il tema dovremmo aggiungere una considerazione importante: la creazione dello stato fantoccio della Repubblica Sociale Italiana nel 1943 è stata la causa principale della successiva lotta fratricida tra partigiani sui monti e fascisti. Perché dimenticarcene? Perché questo fatto cruciale non emerge dal libro?

E potremmo rinforzare ancor più il concetto richiamando la grande esperienza delle SS tedesche nella lotta contro i partigiani, combattuta più attraverso vessazioni e violenze sulle popolazioni che non con scontri diretti con i ribelli. Le reazioni a qualsiasi provocazione dovevano essere durissime, allo scopo di recidere i legami tra partigiani e sostenitori nel tessuto sociale circostante.
La cosa terribile fu che il lavoro sporco venne spesso lasciato alla GNR che, dovendo togliersi di dosso l’onta del tradimento dell’8 settembre, aumentava lo zelo nelle torture e nei rastrellamenti, credendo in questo modo di superare le diffidenze dei tedeschi, i quali negli italiani vedevano comunque e sempre dei traditori.
Non c’è nulla di questa realtà storica nel “romanzo”, nemmeno un accenno.

Dario Collio preferisce propinarci la favola dei tedeschi buoni e degli imprenditori alla Schindler, dei preti scorbutici ma impegnati a mediare per salvare vite.
E non è che qui si neghi il ruolo importante delle mediazioni che coinvolsero il clero. Si vuole solo significare che quell’impegno, pur notevole, fu secondario rispetto al flusso generale degli avvenimenti.

Quando Dario Collio parla dell’albergo Milano di Idro, non racconta di Emi Rinaldini che, accompagnato dai militi fascisti che lo hanno catturato intorno a Odeno il 6 febbraio 1945, viene preso a calci dalla guardia tedesca nei pressi dell’entrata.
Non ci racconta delle torture che subì, lo cita in qualche nota per dovere; ci parla invece di tedeschi simpatici, che insegnano a nuotare ai bambini, di tedeschi ammirati dai medici del paese e dai segretari del fascio per la loro disciplina, per il loro comportamento in battaglia.

Riguardo ai partigiani catturati, fa dire a don Giustino: «Gesù […] tu mi mandi qui un tedesco a suonare così bene l’organo, ma, nello stesso tempo, lasci che altri facciano scempio, giù all’albergo Milano, di qualche povero diavolo che ha solo la colpa di essersi messo dalla parte sbagliata… che poi vallo a capire qual è quella giusta…» [il corsivo, non presente nel testo originale, è nostro]

Al lettore il giudizio su queste frasi.

Si nota, soprattutto nella seconda metà del “romanzo”, un certo qual compiacimento nella deferenza verso il potere tedesco, qua e là intuita anche prima. A questo potere totalitario, che non esita ad imporre il lavoro gratuito alle genti che considera schiave, ci si guarda bene dal contestare qualsisia comportamento scorretto.
Anzi, i personaggi italiani – preti compresi - si dimostrano sempre zelanti, ossequiosi come lo erano d’altronde nella realtà i militi repubblichini.

Ammettiamo che poteva anche essere difficile trattare con un potere totalitario e violento come quello degli invasori tedeschi, ma a noi, che già siamo infastiditi generalmente da qualsiasi sussiegosa deferenza al potere, leggere dello zelo e dell’ossequio aggiuntivo verso quello germanico risulta davvero irritante.

Quando è la volta della presentazione del “comunista” Primo Collio, lo schema non cambia.
Anche lui è un “buono”, perché tratterrebbe i giovani partigiani comunisti dallo scendere dalle montagne per “fare macelli”.
Anche lui è un prete, di religione comunista tuttavia. Contattato da don Giacomo, si fa promotore della strategia rinunciataria, quella che lascia che la libertà sia conquistata da altri per loro. Ovviamente la motivazione è sempre la stessa: evitare morti inutili e lasciare che i tedeschi se ne vadano senza creare problemi.

La bontà, come si vede,
cola dalle pagine del testo quasi ovunque e ci fa rinforzare nell’intuizione che i protagonisti della storia, in fondo, siano tutti preti, tutti disegnati in base allo stesso modello, tutti sulla via della santificazione.

La cosa non è di per sé disdicevole, non ce l’abbiamo certo con i preti in quanto tali, ma, per come è congegnata la struttura del “romanzo” - che possiamo ben dire ora vero romanzo non è, non essendoci né trama strutturata né evoluzione dei personaggi - questi “preti”, con veste talare o senza, non sono personaggi completi.
Sono “litoti”: sono dei non-cattivi, sono “buonisti” piuttosto che buoni. Non affermano il bene, ma cercano di negare il male senza correre veri rischi, vestiti di accidia mascherata da prudenza. Questi “preti” mancano di coraggio.

Ecco che ci risulta chiaro il perché non possa essere presente nel libro un personaggio che rappresenti don Lorenzo Salice, nemmeno sotto pseudonimo. E capiamo altrettanto perché gli si preferisce padre Covili.

Se ci chiedessimo, mentre leggiamo “Quando il pesce andava a fondo”, quale sia il male per questi preti, se ci chiedessimo quale sia il cattivo da combattere e da battere a cui essi si contrappongono, la risposta non sarebbe difficile: il male sono i ribelli che osano contrapporsi al potere dei nazisti e dei fascisti e fanno rischiare la vita alla popolazione innocente.

Il male vero infatti, per questi personaggi, non è da combattere, troppo rischioso! Il male non può essere vinto con la determinazione di una scelta, nemmeno se questa scelta fosse in favore della libertà e della democrazia. Libertà e democrazia: i grandi assenti, i paralipomeni di “Quando il pesce andava a fondo”.
Nazisti e fascisti, ossia il male, sarebbero in fondo già sconfitti, non serve lottare. Don Abbondio non lotta, lascia che don Rodrigo compia a suo piacimento il male senza opporvisi, tragicamente assente Fra Cristoforo.

E adesso ci è più chiaro come l’autore disegni la sua storia alla don Abbondio, e se potesse aggiungerebbe anche un plauso al Conte Zio, che là rappresenta il potere a cui si deve assoluta deferenza se non si vuole incorrere in fatali punizioni.

L’autore non ricorda che
in verità i repubblichini (termine diminutivo spregiativo, indicante la piccola e inutile repubblica a cui avevano aderito) non si credono già sconfitti agli inizi della Repubblica Sociale Italiana (23 settembre 1943), forse il contrario.
Hanno sete di vendetta contro i “traditori” che identificano con i partigiani e cercano solo l’occasione per sfogare la propria rabbia criminale.
I tedeschi sono meno fiduciosi nella vittoria finale, perché alla fine del 1943 gli alleati stanno avanzando vittoriosi su quasi tutti i fronti, ma rimangono determinati a non rinunciare alle loro posizioni. Questo sicuramente almeno fino alla controffensiva nelle Ardenne, datata 16 dicembre 1944.

Il libro dunque
disegna uno scenario valido solo negli ultimi mesi della Repubblica Sociale, mentre le ragioni della ribellione partigiana nacquero ben prima, quando nazisti e fascisti si sentivano forti.
Alla luce di questa considerazione diventa molto difficile, se non impossibile, sostenere che la ribellione dei partigiani fosse un inutile rischio, come purtroppo aleggia in tutto il “romanzo”.

È contro questi nazisti e contro questi fascisti
che i nuovi italiani, avendo a cuore la libertà e la democrazia, imbracciarono le armi.
Tuttavia, non c’è traccia nel testo di Dario Collio di chi ebbe, in tempi non sospetti, il coraggio di fare quella scelta determinante.

Addirittura a pagina 179 (capitolo XLVII) per l’autore i partigiani diventano banditi che strappano le unghie ai prigionieri.
Non è che i banditi non siano esistiti davvero in quegli anni di violenza assoluta, ma il fervore salvifico è tale nell’autore, da impedirgli di scrivere che all’Albergo Milano si torturassero i prigionieri. È talmente forte la volontà di salvare tutti i preti, solo perché preti, che l’autore tenta la riabilitazione addirittura di padre Covili, il cappellano fascista del 40° Battaglione M (vedasi a confutazione la vera storia di don Lorenzo Salice).

Alla fine non ci saremmo meravigliati se il Collio avesse tentato la riabilitazione anche di don Damiani, parroco di Provaglio Val Sabbia in quegli anni. Sarebbe stato coerente con il resto del “romanzo”.

È venuto il momento, prima di concludere, per una precisazione importante. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale la storia raccontata dai vincitori ha dipinto i protagonisti della Resistenza come eroi, e questo non senza una certa retorica. A tale racconto i nostalgici fascisti hanno sempre opposto un contro-racconto che andava a pescare tra gli episodi più negativi ed efferati attribuiti ai partigiani, spesso non lontani dalla verità ma altrettanto spesso inscritti in quella zona grigia, presidiata da gruppi e personaggi senza scrupoli, che nulla avevano a che fare con la ribellione e con i valori a cui si ispirava.

Tuttavia, con questo articolo, si vuole uscire da questo schema altamente stereotipato. Qui non si vuole rispondere alla contabilità dei morti prodotti dai partigiani con la contabilità dei morti provocati dai nazisti e dai fascisti.

Qui si vuole evidenziare, se non fosse finora stato chiaro, che gli esercizi vetero-nostalgico-ideologici, tra i quali possiamo tranquillamente iscrivere “Quando il pesce andava a fondo” di Dario Collio, sono lungi dall’essere terminati.
Anzi, il sottile vento che spira forte insieme al successo quasi mondiale del sovranismo (altro nome per dire nazionalismo, anticamera storica di ogni fascismo), li sta pericolosamente alimentando.

Cosa dire infine dei giudizi iniziali con cui abbiamo cominciato questo scritto, se non che non ci sentiamo di concordare con Alfredo Bonomi quando scrive nella lettera di recensione, a chiusura, che apprezza “la mancanza di ricostruzioni oleografiche” nel “romanzo”. Su tale mancanza pensiamo esattamente l’opposto.

Per rifarci agli altri commenti altrettanto autorevoli che abbiamo citato in apertura, non crediamo che “Quando il pesce andava a fondo” sia un libro di pettegolezzi, se non in alcune parti.
Malgrado ciò, siamo certi, non senza qualche brivido, che il libro possa essere inserito tra i tentativi di scrivere una storia diversa, a spese della verità.

Leretico




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