08 Marzo 2008, 00.00
Gavardo
«A chi dimanda di me» 2

Le parole ritrovate

Pubblichiamo la recensione al libro “A chi dimanda di me” lettere e diari di soldati valsabbini e gardesani alla Grande Guerra 1915-18 di Maurizio Abastanotti, a cura di Pino Greco.

Novant’anni. Tanti ne sono passati dall’ultima pallottola, dall’ultimo sangue versato. Restano i monumenti come arredo urbano: vintage e decorosi, a volte inquietanti, con quel bronzo intrepidamente proteso in avanti, in bilico fra la gloria e l’oblio.

La Grande Guerra ha sepolto i suoi protagonisti con implacabile sequenza. Ricordo gli anni cinquanta e il raccapriccio di quelle spille a rattoppare le brache all’altezza dell’inguine. Ricordo le carrozzelle coi cani, gli occhi rabberciati, i moncherini imbelli.
Chiedevano l’elemosina, ma in chiusura buttavano lì “per la Patria”. E così la carità si mimetizzava in un’elargizione solidale senza i connotati dell’umiliazione. Ai raduni sgambettavano ancora i bersaglieri e il Quattro Novembre era un tripudio di bande e di Bollettini della Vittoria.
Poi arrivarono gli anni della consapevolezza: Lussu, Monicelli, “Uomini contro”, “Ad Ovest niente di nuovo”; la guerra-tragedia; l’ottusità prevaricatrice e cinica; la coscienza di aver barattato migliaia e migliaia di vite per qualche traliccio in più.

Tra nonni e parenti stretti annovero un morto e tre reduci. Uno è tornato con un braccio solo. Quello giusto da tenere ben teso alla marcia su Roma. Una tragedia che si tramuta nella farsa che genera un’altra tragedia. Uno zio di quelli tosti è campato tanto da arrivare a prendersi anche gli sputi. È stato quando qualcuno ha cominciato a parlare di un’Italia che finiva al Po. Con buona pace di quelli che erano saliti da giù a difendere i “sacri confini”.
Poi anche i ragazzi del ’99 hanno cominciato a mollare. Qualcuno è durato fino a sopportare l’insulto di un’apparizione a “La vita in diretta”. Col cappello d’alpino calato sullo sguardo stordito e, sullo sfondo, un brulicare di pronipoti in piercing e vita bassa. La guerra resta confinata sui testi scolastici e in desolati format da terza serata: la guerra come evento epocale, come oscuro garbuglio economico-finanziario, come paradosso politico-diplomatico, come incubatoio di ulteriori tragedie, rivoluzionarie o reazionarie, indifferentemente. La guerra come Storia, con la maiuscola, che impone soggezione e riguardo.

Ma qualche volta, imprevedibile, riappare la vita, nella sua stupenda normalità: quella fatta di carne, di sorrisi, di sensazioni, di progetti, di angustie, di attese, di ritorni. Quella che ha un unico battito, al di qua e al di là del fronte. Il battito dell’anelito e quello della delusione, il battito della trepidazione e quello del terrore. Il battito della gioventù che diventa desiderio o rimpianto. Il battito dei padri di famiglia gravato dall’angoscia della responsabilità. E poi i battiti diventano parole. Parole strapazzate dall’ortografia e dalle approssimazioni sintattiche, ma capaci ancora di emozionare nella loro inerme e cocente autenticità.

Ecco, le parole che riemergono dal silenzio degli archivi, ricomposte col gusto filologico e il fervore militante di un appassionato di storie minime. Quelle che raccontano i Giannini, i Bepi, gli Itali, le Annalise, i Pietropaoli, le Rosalbe: ragazzi di venti, venticinque anni, volte appena diciotto.
Giovani vogliosi di vivere l’ordinarietà delle fienagioni, degli oratori, delle officine, delle osterie, dei corredi, dei racconti accanto al camino d’inverno o nel cortile a sgranocchiare le pannocchie.
Giovani in guerra contro altri giovani. Intenti ad ammazzarsi per farla franca e tornare a casa. Le loro parole, rubate ai tempi interminabili delle trincee impastate di fango, tormentate dai pidocchi e dai colpi solitari dei cecchini, stabilivano un ponte fra l’inutilità estenuante dell’orrore e la lusinga di un ritorno alla quiete vitale dei propri paesi.
E poi, nel momento in cui venivano pensate e scritte, annullavano prodigiosamente le distanze, creando l’illusione di un dialogo in tempo reale con i propri cari. Ma non era così. Oggi le parole fanno il giro del mondo in pochi attimi. Allora si muovevano come lo consentiva il contesto: affidate ai muli, alle tradotte, ai postali impolverati, ai postini coi borsoni a tracolla.
In partenza dal fronte, poi, dovevano superare l’asperità più ostica: la censura. Vietato descrivere. Vietato lagnarsi. Vietato raccontare verità sgradite ai comandi. Chissà quante parole scomparse, rapinate alle sensibilità che le avevano concepite e all’emozione di chi le avrebbe lette. Una selezione implacabile che lasciava filtrare, con annoiata noncuranza, innocue banalità, compiacendosi solo delle rare, rarissime tirate patriottarde.
Operazione opposta a quella di chi in quelle parole si è imbattuto per caso, lasciandosi catturare dalla scabra schiettezza dei messaggi che mettevano a nudo animi semplici e sentimenti veri.

Maurizio Abastanotti è un maestro all’antica, di quelli che, pur provvisti di un armamentario pedagogico all’avanguardia e di sofisticate metodologie didattiche, non dimentica che l’amore per il sapere si induce unicamente attraverso le emozioni, e che quest’ultime non si possono trasmettere se prima non si sono vissute sulla propria pelle. Da maestro all’antica, appunto, preoccupato di predisporre per i suoi alunni delle password emotive sempre più stimolanti, per accedere alla conoscenza dei fatti storici.

Ecco le motivazioni di una ricerca che ha assorbito tempo ed energie, che ha messo alla prova competenze e passioni, che, infine, ha richiesto la mobilitazione di risorse non trascurabili per concretizzare tanta dedizione in una pubblicazione rigorosa e accattivante.
E adesso la pubblicazione diventa patrimonio di un territorio coincidente, in larga misura, con quello dei giovani soldati autori delle lettere.
Immagino la corsa al riconoscimento, all’individuazione delle linee parentali, allo stupore che si propaga con il passaparola e diventa pietà nell’animo di chi s’immedesima nelle brutalità di quei destini recisi.
Difficile restare indifferenti al cospetto di vicende così struggenti. Si deve riconoscenza a chi ha messo il cuore al servizio di una ricerca che, per qualche attimo, fa rivivere una gioventù perfidamente sottratta al suo avvenire.

Pino Greco



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