L’ultimo sabato di luglio, bello e caldissimo, lo trascorriamo ai Due Pini di Salò, immersi tra le decine di olivi e oleandri che circondano le splendide piscine. Che spettacolo!
Partiamo poco dopo le sette e mezzo, per trovare posto nel parcheggio che nel giro di pochi minuti, a causa del celebre mercato di Salò, nel giorno di sabato si riempie all’inverosimile. Lo visitiamo per una mezz’oretta (forse Grazia vorrebbe fermarsi più a lungo…) e poi entriamo in piscina.
L’amico Alessio, da anni emblematica figura degli impianti e del nuoto salodiano, è sempre al suo posto; insieme abbiamo corso alcune maratone all’estero, e ho ammirato la sua caparbietà nel voler raggiungere risultati davvero ragguardevoli in una specialità sportiva che non era la sua.
Alle otto e mezzo c’è ancora poca gente, e dopo aver aperto i lettini, mentre Grazia si stende a leggere, comincio a camminare accanto alla recinzione che delimita l’area.
Percorro una decina di giri, impiegandoci più di un’ora, e questo forse dà un’idea dell’estensione dell’impianto che ospita, all’aperto, una piscina olimpionica di cinquanta metri, una più piccola per i bambini, un campo per il calcetto, due campi da volley, mezzo campo da basket con un canestro, il tutto immerso in una cornice di verde lussureggiante e piacevolissima!
Quante volte l’abbiamo utilizzata, quando i nostri figli erano piccoli, e, soprattutto Grazia, che allora lavorava part-time, nella calura estiva li caricava in macchina tutti e tre per trascorrere dei divertenti pomeriggi.
Anna, poi, che in acqua si muoveva come un delfino, ha trascorso anni in vasca, fino alla soglia dell’agonismo.
Dopo un paio d’ore facciamo un primo bagno; al primo impatto l’acqua sembra freschina, ma dopo qualche istante restare immersi è gradevolissimo.
In acqua perdo la cognizione del tempo e dello spazio, ma in realtà abbandono ogni inibizione e comincio a fare lo scemo: mi esibisco in spericolate piroette, nuoto sott’acqua e risalgo all’improvviso, rituffandomi come un capodoglio, faccio il coccodrillo, poi il morto, mi tuffo dai blocchi e resto sotto per qualche metro, scendo dagli scivoli infinite volte, divertendomi un mondo…
Insomma, se qualcuno mi osservasse a lungo, sicuramente penserebbe che sia colpito da qualche rara, grave e irrecuperabile malattia.
Uscito dalla vasca, percorro a piedi l’intero perimetro dell’impianto per asciugarmi, e quando arrivo in prossimità del campo di calcetto, mi arriva tra i piedi una palla calciata con potenza da un ragazzino che sta giocando con gli amici e grida:
“Palla!”.
“Tranquilli ragazzi, ve la rimando io!”.
E’ una bella palla di cuoio pesante.
Siamo a una trentina di metri dal campo, prendo la rincorsa: calcio di destro o di sinistro? Calciavo indifferentemente con i due piedi, tanti anni fa, e mettevo la palla dove volevo, in quei sei meravigliosi campionati trascorsi con la maglia verde della mitica Falck di Vobarno.
In quella squadra (ero tra i più giovani!) i compagni erano Armando Antonini ed Ettore Amigoni, Aldo Maccarinelli ed Ermanno Franzoni, Pippo Pontoglio e Franco Zambelli, Alessandro Bazzani e Fabio Bordonali, e poi Gazzaretti, Spiazzi, Ghirardi, Panzeri, Orizio, Tiboni, Braga, Melzani, Massetti, i coetanei Giudici e Arrighini, e chiedo scusa a quelli che non ho nominato, mentre in panchina l’allenatore era Gigi Brotto, veneziano, indimenticato portiere del Brescia per undici stagioni in serie A e B.
Nei due campionati successivi, invece, il mio allenatore sarebbe stato Chico Nova, gran centravanti di Brescia, Atalanta e Palermo, gli ultimi anni ottimo cronista a Teletutto, andatosene troppo presto per un male incurabile.
“
Come la vuoi, ragazzo – penso tra me, convinto di stupirlo –
sul piede, a mezz’aria vicino alla porta per essere appoggiata in rete, alta per essere colpita di testa? Dove vuoi, te la metto, dove vuoi…”.
E torna in mente l’emozione del primo gol, avevo diciotto anni, che ci permise di terminare il campionato al secondo posto dietro il Crema, che volò in serie D.
Avversario, era il Lumezzane, che arrivò terzo, pieno di figure storiche e carismatiche per la compagine valgobbina: Carletto Bonomi, Cadei, Festa, Filigheddu, Bertanza, Taiola, e tra i pali l’ottimo Soncina.
Su quella panchina si sarebbe a breve seduto Gigi Maifredi, che avrebbe poi spiccato il salto, allenando in seguito Ospitaletto, Bologna e nel 1990 la Juventus.
La porta era a una trentina di metri, e con l’incoscienza della gioventù tentai l’impossibile sparando un sinistro esplosivo che s’infilò all’incrocio dei pali dell’incredulo portiere.
Lo feci a occhi chiusi, ma compresi di aver segnato quando tutti i compagni mi abbracciarono. Io non capivo più niente, e nella settimana successiva non riuscii a dormire una notte intera, perché quando chiudevo gli occhi, rivivevo l’emozione del gol!
“Mhhh, no, calcio di destro, te la metterò sul piede, ragazzo”, decido.
Prendo la rincorsa, mi coordino, piede sinistro d’appoggio alla giusta distanza e “
boom”, parte la palla, che gli arriva con precisione millimetrica sul piede, mentre nello stesso istante sento una fitta tremenda all’interno della coscia, dall’inguine fino all’altezza del ginocchio, come un terremoto dell’ottavo grado, che mi procura un dolore atroce.
“Scemo – comincio a ripetermi –
scemo, e ancora scemo!”.
Ma come si fa? Non potevo riflettere, prima di calciare d’istinto con tanta potenza?
“Mai più, mai più una cosa del genere”, mi ripeto, e sono colto da un grande sconforto…
Dopo un’ora tutta la parte interessata dallo
“tsunami” comincia a diventare scura, e a sera sarà indiscutibilmente tumefatta e violacea.
Era già successa molti anni fa, una cosa simile, ma non a me, bensì a un collega: in una partita di calcetto giocata tra i dipendenti della nostra società, si era gravemente infortunato a un ginocchio e ricordo di aver promesso che non avrei mai più partecipato a una partita, neppure per scherzo.
Ho mantenuto la promessa ma ora con grande avvilimento devo riconoscere l’amara verità: in futuro neppure un calcio a un pallone mi sarà più consentito. Povero me. È dura dover osservare (e accettare!) i “
ramilì che se séca”.
Per fortuna, quando all’ora di pranzo ci sediamo al bar e gustiamo tramezzini e panini squisiti, ci divertiamo un mondo con una piccolina che sta giocando con la sorellina, che ci guarda e sorride, e a me fa delle linguacce che mi fanno morire dal ridere.
Non so come faccio a trattenermi dal risponderle aprendo la bocca con due dita, far uscire la lingua e con le altre dita alzare le palpebre, strabuzzare gli occhi e abbassare le orecchie…
“Non fare le linguacce!”, la sgrida il papà, ma osservandola, capisco che le linguacce non le fa a tutti, indistintamente, ma soltanto a chi le è simpatico, e me ne compiaccio.
Nel pomeriggio ancora infiniti bagni, lanci dallo scivolo e dai blocchi, perché mi diverto a restare sott’acqua più che posso. Insomma, resto in vasca per ore.
Alla fine, è sera ormai, si deve tornare a casa. Ma ci torneremo prestissimo ai “
Due Pini”, anzi, già sabato prossimo!
Resta la soddisfazione di aver trascorso una magnifica giornata in una cornice incantevole, il ricordo delle linguacce e del sorriso di quella simpaticissima bambina, la rinnovata consapevolezza, casomai ve ne fosse bisogno, della caducità di ogni cosa (e il bisogno di saper accettare serenamente questa realtà), e infine… un gran dolore alla coscia destra!
Ezio Gamberini