11 Marzo 2014, 07.00
BLOG. Quaderni di cinema

La 'trilogia del degrado', il vero cinema del reale

di Nicola Cargnoni

In questi giorni in cui si parla molto del film di Sorrentino, tra le varie bestialità (e i vari paragoni con Fellini, del tutto fuori luogo) ne ho sentita una che mi ha colpito in particolar modo: «La grande bellezza» rappresenta alcuni aspetti della nostra società


Dissento.
In realtà il film di Sorrentino ritrae un’Italia che quasi nemmeno esiste, in una Roma ripulita, sistemata e messa in ordine per l’occasione.
Col risultato che oltre a essere un film vuoto, è pure finto.

A tal proposito vorrei parlare di tre titoli: «Pater familias», «Et in terra pax» e «Corpo celeste».
Cos’hanno in comune? Sono italiani, sono recenti, sono terribilmente e moralmente violenti, sono girati benissimo e sono tutte opere di esordio dei rispettivi registi (Francesco Patierno, il duo Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, infine Alice Rohrwacher).
E, manco a dirlo, non hanno goduto della distribuzione che meritavano.

Secondo me formano una ideale “trilogia del degrado”, da cui emergono sul serio scorci, situazioni e ritratti della nostra società. Altro che «grande bellezza», la cui unica cosa davvero reale è quella grandissima minoranza di ricconi intellettualoidi e radical chic (ovviamente di sinistra) dei salotti romani.

Parto dall’ultimo, «Corpo celeste», il più recente e forse quello meno crudo dei tre.
Girato da Alice Rohrwacher (sorella dell’attrice Alba), ambientato in Calabria, vede come protagonista una ragazzina, Marta, che dopo essere cresciuta in Svizzera, torna a Reggio Calabria; immersa nella terribile realtà urbana calabrese, si deve preparare alla Cresima.

Quello di Marta è un viaggio dantesco, durante il quale deve affrontare una società chiusa, molto ignorante, guidata da dettami religiosi, ma a loro volta chiusi nel circolo vizioso della tradizione, più che della fede, con un parroco che è più politico che uomo di chiesa.
Personaggi vividi e terribili, donne radicalmente cattive, situazioni ed episodi frustranti sono i “lampi” che illuminano il percorso che Marta fa verso la Cresima.
L’incontro con un prete folle e il finale di vera redenzione epifanica sono l’apice di un lavoro che la Rohrwacher esegue magistralmente.

«Et in terra pax» è del 2010 ed è diretto da Matteo Botrugno e Daniele Coluccini.
È un film al quale mi sono avvicinato senza particolari aspettative, con la curiosità che mi accompagna ogni volta che guardo (spesso in maniera diffidente) le opere prime di un regista italiano.
Ancora oggi faccio fatica a parlarne, perché è un film che mi ha sorpreso, mi ha colto impreparato e mi ha moralmente preso a schiaffi per tutta la sua durata.

Ambientato in un quartiere periferico di Roma, ritrae la realtà della nostra capitale: quella dei palazzoni abitati abusivamente o semi abbandonati, degli spacciatori sulle panchine, degli stupri, della difficile integrazione, dei mucchi di spazzatura.
Non certo quella dell’attico “vista Colosseo” di Jep Gambardella, ma quella dei ragazzini che bighellonano e sniffano coca, così lontani dai discorsi da ricconi intellettualoidi o dalle feste sfrenate riservate a pochi intimi.

È un film irruento, che ti prende e ti accompagna all’interno di un meccanismo di autodistruzione, senza intenti moralistici, ma soltanto con la voglia di raccontare, mostrare, “far vedere”.
In un lavoro di regia che rasenta la perfezione, Botrugno e Coluccini ci raccontano di Marco, che esce di galera e torna a spacciare sulle panchine, mantenendo un profilo basso e un’etica (chiamiamola così) che si scontra con la spavalderia di Faustino, Massimo e Federico, i tre ragazzi(ni) protagonisti di questa fiaba al contrario.

Fino all’ineluttabile finale di purificazione, non necessariamente benefica, dei mali che si susseguono uno dietro l’altro per tutta la durata. Uno di quei film che ti bloccano, mentre gli occhi guardano (ma non vedono) i titoli di coda e la mente ripercorre gli ultimi agghiaccianti istanti di pellicola.

Qualche anno prima, nel 2003, era uscito «Pater familias», girato dall’allora esordiente Francesco Patierno e ambientato a Casoria, un ambiente notoriamente non facilissimo.
È il racconto su come la famiglia sia rifugio e prigione.
Da un lato la famiglia tipicamente meridionale che protegge, che fa quadrato attorno ai propri membri, che protegge i propri figli; ma dall’altro lato la stessa famiglia è prigione, è legame a filo doppio, è catena, è l’infrangibilità di certe regole sociali.

I protagonisti di questo film sono alcuni ragazzi, molto legati tra di loro, che costituiscono a loro volta una “famiglia”.
È un film violento, dove però si spara molto poco.
Qui la violenza è quella dei figli che maltrattano le madri.
Quella dei mariti che vogliono mangiare i fagioli in pace e allora insultano le mogli.
Quella dei padri che lanciano posaceneri in faccia ai figli.

È la violenza morale della logica della vendetta, la violenza degli amori obbligati, quella delle rapine finite male, delle bravate che finiscono in tragedia e dell’inesorabile destino che appartiene a ogni membro.
Un ambiente dove “il più sano ha la rogna”, e infatti il film parte da Matteo, il più “sano” di tutti, che torna a casa in libertà provvisoria (!) per affrontare la morte del padre.

Grazie a lui e a numerosi flashback, le immagini ci portano al passato dove gli amici di Matteo sono tutti morti in maniera tragica. Matteo ora deve sistemare i dettagli burocratici riguardanti la morte del padre, ma vuole anche offrire una via d’uscita a Rosa (suo vecchio amore) che nel frattempo si è sposata, ovviamente male.
Nel corso della narrazione scopriamo anche il motivo per cui Matteo finisce in galera, rassegnandoci a nostra volta all’ineluttabile destino, figlio del meccanismo perverso, ma lucidamente coerente, che regola la vita delle periferie degradate come quella di Casoria.

Questi tre film compongono una brillante e ideale (nonché involontaria) Trilogia del degrado, o almeno è il modo in cui personalmente cerco di accomunarli l’uno all’altro.
Forse la storia di Marta è quella più anomala delle tre. Perché è da un punto di vista femminile, quindi formalmente più delicato e meno “violento” (anche se soltanto nelle parole e nei gesti), perché fondamentalmente si conclude con una nota di speranza, e perché è la storia vista dagli occhi di una 13enne, che guarda con meraviglia e stupore un mondo a cui non vorrebbe appartenere.

Mentre gli altri due titoli sono delle tragedie greche, senza soluzione di continuità, con un impatto morale devastante e un’assai accesa violenza di immagini.
Non mi sono soffermato sui dettagli tecnici, perché in realtà ci sarebbe anche questo sorprendente aspetto da approfondire: tutti e tre i film conservano al loro interno un piccolo tesoro di fotografia, colore, suoni, rallentatori “scorsesiani”, movimenti improvvisi della camera…

Non solo la narrazione, ma anche il modo in cui sono raccontati, fanno di questi film delle perle ingiustamente ignote al grande pubblico, al quale si vuol far passare l’idea che un film valga di più solo se maggiormente distribuito.
I cast: per tutti i film sono utilizzati attori semi-sconosciuti, facce poco note, o persone realmente appartenenti alla realtà raccontata; in un’intervista, uno dei protagonisti di «Pater familias» ammette di non aver faticato a recitare, perché la sua vita è tale e quale all’interpretazione che ha dovuto dare del proprio personaggio.

Sul solco di questi tre film si può incanalare anche «È stato il figlio» (2012) di Daniele Ciprì, che racconta di una storia realmente accaduta nella Palermo degli anni Settanta.
Ambientato a Brindisi (per prendere i contributi della Apulia Film Commission, una delle poche cose ben funzionanti in Puglia) e interpretato da uno splendido Toni Servillo e da un cast ancora una volta sorprendente, è però un film che si può definire grottesco, sicuramente tragico, ma narrato con un piglio che non vuole essere troppo violento.

A tratti divertente, fa sorridere. È certamente subdolo, perché c’è una sostanziale violenza di fondo che è però ben mascherata dalla tragicomicità delle interpretazioni.
Non lo affianco agli altri tre nel tentativo di formare una tetralogia, non per particolari demeriti (è da vedere assolutamente), ma perché i primi 3 film conservano un fondo di violenza morale che è davvero difficile da raggiungere e imitare.

. in foto, nell'ordine:
- «Corpo celeste»
- «Et in terra pax»
- «Pater familias»




Commenti:
ID42735 - 13/03/2014 19:28:17 - (Dru) - Su La Grande Bellezza

La falce e martello, disegnata a raso sul pelo fulvo della nuda adepta sudante trepidazione, è depilazione che conduce alla autodelapidazione, intuizione che identifica il sacrificio ancorché inutile al ridicolo ideologico, per un improbabile dea bendata, retaggio di una religiosità sepolta dal tempo, che ancora si sbatte contro solide colonne, come meticcio di un estetica inattendibile.Nella carellata di personaggi, il meno peggio è giornalista, per necessità, e scrittore d'origine, metafora del tempo che vince, tutto vince, le attività, i sentimenti, le relazioni, le esistenze, ma non la grande bellezza di Roma, appunto, che a tutto resiste e di tutto gli scivola addosso, così è per le notti la festa.

ID42736 - 13/03/2014 19:40:14 - (Dru) - The Tree of Life di Malick

Malick contrappone alla nascita della natura la morte della vita, al bello della creazione il brutto della distruzione, che la folgorante angoscia della creazione produce con la sua essenziale precarietà: la speranza di una natura potente germina il nulla come senso o più propriamente come il nonsenso. Rimane un angosciante quesito che non trova risposta durante tutta la pellicola, con vite e relazioni sempre precarie, con esistenze che sono come foglie ancora sull'albero d'un autunno che si fa inverno, ma senza possibilità di circolarità. In Malik non c'è bellezza che in natura e mai nelle opere dell'uomo. Ad un decadentismo morale di Sorrentino, quando lascia vedere una via d'uscita nel bello delle opere dell'uomo, ho concluso, con la visione di Malick, che il bello della creazione, aperta all'abisso senza speranza, mette le vertigini, in un vero film d'autore.

ID42737 - 13/03/2014 19:41:40 - (Dru) - Ti ho scritto questo due titoli

Perché sono gli ultimi due film che ho visto con piacere, cosa ne pensi di Malick ?

ID42746 - 14/03/2014 11:18:55 - (nimi) - chiavi di lettura

La tua chiave di lettura dell'ultimo lavoro di Sorrentino è sicuramente molto interessante, certamente più degli strali che qualcuno lancia se ci si permette di ledere la maestà nazional-popolare del film. Io credo che quando un film offre motivi di discussione (intelligente) è cosa "buona e giusta", semmai è un po' meno giusto che questo avvenga a fronte di un premio così poco cinefilo (ma anzi, quasi esclusivamente commerciale) come l'oscar. A parte questo, mi chiedi cosa ne penso di Malick: ritengo che i primi tre lavori (Badlands, i giorni del cielo e, soprattutto, la sottile linea rossa), usciti nell'arco di 25 anni, siano dei veri capolavori di scrittura, sui quali un commento non basterebbe, ma credo che su questi 3 lavori si possa essere facilmente d'accordo. Con Il nuovo mondo, Malick sceglie la via del film narrativo, mantenendo altissimi livelli di tecnica cinematografica.

ID42747 - 14/03/2014 11:24:50 - (nimi) - Malick

E poi? Poi sembra che, piano piano, in Malick sia rimasta la notevole capacità tecnica, ma che abbia perso quella verve "sotterranea" che ha caratterizzato parte del suo lavoro precedente. The tree of life è sicuramente un film ben fatto, che offre contenuti ben più "concreti" del decadentismo morale e ideologico di Sorrentino. In tree of life c'è un'interessante operazione di naturalismo, in un continuo parallelismo tra il senso scientifico della vita e quello più intimo, più religioso, forse fin troppo aperto su una sua interpretazione metafisica. Devo essere onesto: a me non è arrivato del tutto, pur rivedendolo più volte. Ho apprezzato abbastanza l'ultimo, To the wonder, che è stato piuttosto stroncato da critica e pubblico.

ID42755 - 14/03/2014 13:30:55 - (Dru) - Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? Mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?”

Questo l'inizio del Film, quel "dov'eri tu" è forse l'accusa al Dio cristiano, al Dio trascendentale? Forse il senso di una natura religiosa spinoziana? Assolutamente irriguardosa nei confronti di ogni finalismo e antropomorfismo? Non vi è gioco tra Natura e Grazia ma identità.Sembra che Malick a questo voglia indicare, ad una rilettura del vecchio testamento, di un Dio come Natura, identici come lo stesso e non uno il fondamento e l'altro il fondante, dove il tutto è immanente e non trascendente. Una Natura quindi rivisitata, come rivisitato è il messaggio del vecchio testamento, una visione, quella di Malick filosofica insomma, che guarda all'ordinamento "vero" di creazione e distruzione, né di tipo trascendentale, di un Dio che creatore rimanda al creato come ad un fondato, né ad una Natura senza leggi, che non appunto quella di un potentissimo e vorticoso creato.

ID42756 - 14/03/2014 13:32:04 - (Dru) -

Comunque, se può farti piacere, anche io l'ho visto parecchie volte e non sono sicuro di quanto voglia comunicare Malick, se non una continua e imperturbabile precarietà della Grazia, magicamente affrontato dal punto di vista tecnico.

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