A poche settimane di distanza dal «Pasolini» di Abel Ferrara, Mario Martone torna nelle sale con il suo Leopardi, compiendo un’operazione a mezza via tra il biografico e la tesi interpretativa
Che non fosse semplice portare al cinema la vita di Giacomo Leopardi era un assunto dato ormai per
scontato, tant’è vero che prima di Martone nessuno ci aveva provato.
Lo stile della pellicola risente del background del regista, infatti ci troviamo di fronte a un film a impronta fortemente teatrale, nelle interpretazioni come nelle scenografie.
Il film prende forma nel «natìo borgo selvaggio», ovvero in quella Recanati dove il nostro Giacomo è nato e cresciuto, nell’ovattata atmosfera di casa Leopardi, il cui mondo era un microcosmo blindato, popolato soltanto dalla famiglia e dai vari abatini precettori dei figli di Monaldo; un microcosmo circondato da quelle siepi che «da tanta parte il guardo escludevano» e che delimitavano il profilo dell’orizzonte marchigiano.
L’incipit è folgorante, anche perché storicamente e filologicamente perfetto.
La figura di un padre inflessibile e pretenzioso si accompagna a quella di una madre fredda, cinica, austera, destinata a diventare l’incarnazione di quella Natura verso cui Giacomo si scaglierà più avanti negli anni.
La biblioteca di casa Leopardi è riportata alla condizione in cui era prima della partenza del giovane favoloso: teatro di quelle interminabili giornate di studio che Giacomo viveva seduto al suo scranno, posizionato sotto alla finestra dalla quale il poeta si affacciava per godere della luce del sole.
Fuori da quella finestra, però, non c’è soltanto la luce del sole: c’è la Recanati caotica, gretta e odiata dal poeta.
C’è la strada, popolata da quella gente con cui Leopardi rifiutava ogni condizione di empatia; c’è la condizione limitante e limitata che spinge Leopardi a una fitta corrispondenza con Pietro Giordani; ma nella finestra di fronte c’è anche Teresa, la figlia del fattore, la stessa che con il suo canto e i suoi gesti quotidiani ha ispirato «A Silvia».
La trama fa un salto di dieci anni e si dipana sulle esperienze che Leopardi vive a Firenze e Napoli con l’amico Ranieri.
A questo corrisponde un tratteggio sempre più aspro del carattere del personaggio, irrimediabilmente indirizzato verso una condizione di pessimismo e malinconia, tanto che gli intellettuali fiorentini dell’epoca si permettono il lusso di stroncare le «Operette morali», in nome della “felicità delle masse” cui l’Ottocento guardava con feroce ottimismo.
Senza mai far emergere un senso di compassione per i difetti fisici del poeta, il regista fa proferire a Leopardi il monito categorico di «non confondere il disagio del suo intelletto con lo stato del suo corpo», marcando nettamente il “territorio intellettuale” del poeta.
Con una regia piuttosto priva di slanci, e abbastanza lineare nel mostrare le varie fasi della vita di Leopardi, Martone si concede alcune digressioni poetiche, più o meno efficaci, e probabilmente enfatizza troppo i difetti fisici del gracile poeta, ingobbito e accecato dalle ore passate a leggere, tradurre e scrivere.
Qua e là vi sono alcuni “sprazzi” del montaggio che fanno pensare a come avrebbe potuto essere il film se ce ne fossero stati di più.
Ma la linearità della regia non è sempre un difetto: in questo caso, almeno, c’è un personaggio dotato di una psicologia molto complessa, un personaggio talmente intenso, completo e interessante da non avere bisogno di virtuosismi registici e che basta da solo a tenere in piedi l’intera impalcatura della pellicola, grazie anche a un Elio Germano che è alla migliore interpretazione della sua carriera.
Martone si limita, quindi, a dirigere gli attori, lasciando spazio e vita al mondo leopardiano, alla figura dell’uomo dietro al poeta e alla contemporaneità in cui il «giovane favoloso» viveva.
C’è anche da dire che alla “narrazione storica” dell’inizio recanatese si contrappone quella caleidoscopica del finale napoletano, smentendo anche l’assunto che una regia lineare debba per forza corrispondere a una regia didascalica.
Infatti Martone realizza un film che presuppone un minimo di conoscenza della vita di Leopardi, lasciando che sia lo spettatore a farsi un’idea di ciò che ha ispirato le opere e le considerazioni del poeta, a partire dal comportamento dei recanatesi che Leopardi incrocia durante le sue passeggiate o durante le pause dallo studio delle «sudate carte».
Un appunto sulle musiche che caratterizzano alcuni momenti topici in cui il poeta è preda di sé stesso: Martone sceglie un registro musicale fortemente contemporaneo, dando un senso di estraniazione, ma anche contrapponendo passato e presente e ponendo quindi il Leopardi in una condizione di universalità, la stessa che fu teorizzata dal Petrarca.
È chiaro, quindi, l’intento di avvicinare in maniera empatica lo spettatore al personaggio, rendendolo “uno di noi”, facendo sì che i suoi sentimenti non siano distanti nel tempo.
Personalmente non ho amato le musiche in questione, ma indubbiamente c’è da apprezzarne l’intento stilistico, che è quello di ascrivere Leopardi in una dimensione atemporale ed immortale.
Nel complesso un film che porta in seno alcuni difetti, mai così gravi da condizionarne una piega in negativo.
Infatti la messinscena, le interpretazioni e l’intento realizzativo sono da aggiungere all’interpretazione magistrale di Germano e alla sublime rievocazione storica di personaggi, ambienti e costumi; bastino questi elementi per fare di questo film uno di quei prodotti per cui vale la pena andare al cinema: ***½.
In uscita questa settimana (da segnalare):
Il giovane favoloso, Joe
Già nelle sale (da segnalare): Anime nere, Perez, Take five, Party girl, Medianeras, Pasolini, Io sto con la sposa, Winter sleep, Class enemy.
Nicola Nimi Cargnoni