23 Febbraio 2015, 07.31
Quaderni di Cinema

Ha vinto a Venezia e non si sa bene perché

di Nicola 'nimi' Cargnoni

Il «piccione seduto sul ramo» vince il Festival del cinema di Venezia ed è pompato dalla critica, ma occorre farsi un generale esame di coscienza sugli effetti collaterali di questo premio


L’idea di dover parlare male di un film mi mette sempre a disagio, perché è vero che si tratta pur sempre di un’opera d’arte.
Soprattutto in questo caso, dove l’oggetto della disanima è l’ultimo film di Roy Andersson, un regista svedese la cui genialità è inversamente proporzionale alla prolificità.
Un film nel 1970, uno nel ’75 e poi nulla fino al 2000, anno in cui ha realizzato il sorprendente e strepitoso «Canzoni dal secondo piano», primo film di una “trilogia della vita” che si chiude proprio con «Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza».

Il fatto è che non se ne può neppure parlare male, perché il film, se inserito nel solco dell’opera di Andersson, ha un andamento coerente e assume un valore intrinseco alla logica con cui è stato realizzato.
Il problema, semmai, è che questo film ha vinto un festival dove in concorso c’erano «Birdman» (Iñárritu) e «The look of silence» (Oppenheimer): certo non due capolavori, ma quantomeno due prodotti che hanno saputo unire in maniera più originale il linguaggio cinematografico a un plot narrativo che non si limita certo al racconto di stampo hollywoodiano.

Il linguaggio del «piccione» è fatto di inquadrature fisse e di una fotografia spenta e dalle tonalità grigio-verdi; al centro delle inquadrature si alternano episodi più o meno sensati che vorrebbero (dovrebbero) mettere in mostra l’assoluta e routinaria normalità della vita, delle gioie, dei dolori, delle miserie e degli affanni dell’umanità.
Con alcuni incroci di storie, in stile “altmaniano”, il regista ritrae alcuni “quadri animati” che sono tecnicamente ineccepibili, ma dai quali emerge un totale nonsense e una totale sovversione di canoni narrativi; l’idea del quadro, per altro, è evidente già dal titolo, che deriva appunto da un’opera d’arte pittorica di Pieter Bruegel il Vecchio.

Dopo la vittoria a Venezia si è parlato di “film grottesco”, di “risate amarissime”, di “umorismo nordico” e di “ironia acida”.
Di grottesco, invero, c’è soltanto il fatto che questo film abbia vinto il leone d’oro e che possa richiamare nelle sale un pubblico che, se non è preparato sui precedenti lavori del regista, rischia di perdere ulteriore fiducia nei festival cinematografici.

Del tipico umorismo nordico, quello fatto di ironia pungente e di amare e sardoniche risate, non v’è la minima traccia.
Tutt’al più si sorride a malapena per i primi due o tre episodi, ma per il resto il film non strappa nemmeno quelle “risate malate” tipiche del cinema scandinavo, per intenderci quelle che scappano con «Canzoni dal secondo piano» (Andersson), «Tjhe Kingdom» o «Il grande capo» (Lars Von Trier).

Filo conduttore dei trentanove “quadri animati” sono due anziani venditori di accessori per il carnevale.
Due assoluti imbecilli, che si muovono come automi e che parlano come fossero delle marionette infilzate. Personaggi che sembrano usciti da un istituto di igiene mentale e che dovrebbero dare una dimensione cinica al film, ma che scatenano soltanto una gran nevrosi nello spettatore ogni volta che appaiono e aprono bocca. Il tutto accompagnato da una colonna sonora, la stessa per tutta la durata del film, che aumenta o diminuisce di intensità col cambio di scena, ma che non varia di una sola nota, risultando snervante, quasi ridicola.

Con frasi ripetute tre o quattro volte all’interno dello stesso sketch o con la stessa frase che i personaggi ripetono in ogni scena che si svolge al telefono, il regista vuole probabilmente assegnare al film la ridondanza delle azioni quotidiane, delle frasi “che si dicono sempre”, della ripetitività della vita. Ma la ciclicità, che nella sua normalità nasconde sempre qualche imprevisto, può risultare così noiosa soltanto al cinema.
Il film risulta essere surreale e grottesco, il che andrebbe pure bene, ma non riesce mai a pungere, non riesce a farsi portatore di quelle istanze e di quegli interrogativi filosofici che spesso uno dei due “venditori di maschere” si pone.

«Vogliamo aiutare la gente a divertirsi» è la frase con cui i due venditori presentano i loro prodotti.
La tragedia è che non ci riescono dentro il film, ma soprattutto non ci riescono minimamente nemmeno fuori.
Stando ai toni entusiastici post-festival, ci si aspettava un film che doveva essere grottesco o che comunque dovesse porre lo spettatore nella condizione di dover ridere amaramente, ma si tratta soltanto di un film totalmente privo di senso; e si tratta di quel nonsense che non è nemmeno comico.
È un film che ha la pretesa di porre i suoi protagonisti nell’attesa di Godot, ma quest’attesa si riversa soltanto sul povero spettatore che attende, e attende, e attende, ma al posto di Godot (che poteva essere rappresentato da una svolta) vede arrivare tanta tanta noia.

Raramente mi capita di uscire arrabbiato dalla sala, ma in questo caso non voglio nemmeno scagliarmi soltanto sul film.
Se lo isoliamo e lo analizziamo nel suo contesto, si può certamente parlare di un’opera che si prefigge uno scopo e, a modo suo, lo raggiunge.
L’arrabbiatura riguarda le aspettative che possono nascere da un Leone d’oro e da certi commenti entusiasti della critica tutta “baffi e monocolo”. Le giurie dei festival dovrebbero essere come i tribunali e, quindi, scrivere in maniera esaustiva i motivi per cui decidono di premiare un film piuttosto che un altro.

Se si parla di “grottesco” e di “risata amara” (senza andare troppo indietro nel tempo e senza tirare in ballo la commedia all’italiana o capolavori come «Brutti, sporchi e cattivi») a me vengono  in mente gli italianissimi e recenti «Belluscone», «È stato il figlio» e tutti i lavori della coppia Maresco & Ciprì.
Probabilmente questo tipo di cinema non farebbe mai ridere uno svedese, ma è ciò che ci si aspetta leggendo o sentendo alcuni commenti della critica allineata alle decisioni di una giuria che avrebbe dovuto dare qualche spiegazione.

Il premio in un festival come quello di Venezia
(così come a Cannes, Berlino, Locarno o al Sundance) ha un peso politico che va ben al di là dell’ambito cinematografico e su questo credo che non ci piova.
Che l’edizione 2014 di Venezia non fosse una delle migliori è assodato, lo si sapeva a settembre e lo si sa ancor meglio oggi.
Rimane quindi il mistero, la curiosità e anche un po’ di rammarico sul perché sia stato premiato un film che è, sì, un’opera ben fatta, ma che rimane circoscritta a un ambito molto più stretto di quanto, invece, non facciano i film di Iñárritu e Oppenheimer, i quali spaziano in un’ottica di maggior respiro.

Valutazione: **.
Che, magari, dal punto di vista cinematografico è oggettivamente poco; ma sul giudizio pesa troppo l’amarezza dei cento minuti passati in sala aspettando una svolta che non è mai arrivata.

Nicola ‘nimi’ Cargnoni

In uscita giovedì 19 febbraio (da segnalare): Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza.
Già nelle sale (da segnalare): Timbuktu, Whiplash, Birdman, Biagio, Educazione affettiva, Gemma Bovery, Turner, Difret, Piccoli così, Still Alice.

Per conoscere la programmazione della provincia:
1.    Andare su http://www.mymovies.it/cinema/brescia/
2.    Appare la lista dei film presenti in città e provincia.
3.    Per ogni film è segnalato il paese o il cinema in cui lo si può trovare.




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