28 Settembre 2020, 08.50
Blog - Genitori e figli

Perchè non insegnare l'empatia?

di Giuseppe Maiolo

E se insegnassimo l’empatia? Se introducessimo questa materia scolastica per insegnare ai bambini a riconoscere i vissuti dell’altro?


Penso ci aiuterebbe a combattere l’individualismo crescente della società e ridurre freddezza emotiva e indifferenza, con cui vengono compiute le azioni più efferate.

Vedi i fatti di Colleferro.
Perché l’aumento della violenza e la diffusione delle parole dell’odio che stanno attraversando la realtà sociale sono decisamente collegate all’incapacità di provare empatia.

Lo dimostrano molti studi con i quali si ribadisce che è fondamentale far crescere il senso di responsabilità morale e la capacità di cogliere la sofferenza altrui. Ma per insegnare i comportamenti empatici dovremmo cominciare col togliere di mezzo quel “fatti gli affari tuoi” che rimane il modo con cui ai bambini insegniamo il disimpegno e l’indifferenza invitando a girare la testa dall’altra parte.

Qualcuno dirà che non si insegna ma si educa all’empatia perché è un’abilità presente da tirar fuori, non qualcosa da mettere dentro. Caso mai si sviluppa. Ed è così. I neonati, di fatto, di fronte al pianto di un altro bambino reagiscono piangendo a loro volta.

Si chiama “contagio emotivo” ed è reazione immediata e innata che la ricerca scientifica, scoprendo i neuroni a specchio, ha indicato come la funzione precoce che consente di imitare e condividere gli stati d’animo altrui.

Empatia è parola greca il cui significato è “sentire dentro”. Una dimensione particolare di partecipazione e di reale vicinanza che, come dicono gli inglesi, ti fa sentire dentro perché “ti metti nelle scarpe” dell’altro.

Non è un “farsi carico” dei sentimenti altrui per eliminare la sofferenza, quanto un riconoscerla e avvicinarsi senza restare indifferenti. È un contatto non razionale ma emotivo, immediato e non costruito che ti fa vibrare insieme alla persona che ti sta di fronte perché prima di tutto riconosci le tue emozioni e poi percepisci le risonanze comuni.  

Per questo la comunicazione empatica è immediata, più corporea e non verbale che fatta di parole e pensieri. Per nulla semplice, ma proprio per questo assolutamente da sviluppare e allenare in quanto è dotazione che col tempo e con i particolari modelli sociali che abbiamo, può attenuarsi o spegnersi.

In effetti ad osservare il fenomeno sempre più diffuso del bullismo reale e virtuale che, come molti studi hanno documentato, è collegato a bassi livelli di empatia, si rende evidente il fatto che il bullo non è capace di preoccuparsi di ciò che prova l’altro. Non percepisce lo stato d’animo della vittima e l’unica lettura possibile sembra essere il divertimento e il piacere che gliene deriva dalle azioni prevaricatrici perché con esse si pone al centro dell’attenzione.

Fin tanto poi che faremo prevalere nell’educazione il meccanismo della motivazione egoistica e del personale tornaconto, avremo scarsa partecipazione emotiva o indifferenza, di conseguenza distanza da possibili azioni di aiuto. Il rischio è che non aumentino solo i bulli ma anche gli spettatori passivi che guardano, magari filmano, ma non intervengono e non dicono parola.
Nel mio frequente andare nelle scuole per affrontare il bullismo con i bambini e gli adolescenti scopro ogni volta con grande sorpresa la difficoltà che essi hanno a dire ciò che provano dentro.

Non sanno descrivere quale stato d’animo vivono, sia come vittime che come spettatori. Poveri o - peggio ancora - analfabeti di emozioni, mi dicono solo che il loro è divertimento e scherzo!

Per questo sostengo che a scuola, ma anche in famiglia, si debba insegnare l’empatia. Che vuol dire permettere di conoscere il nome dei sentimenti e mettere in grado i bambini di avere le parole per dire quello che si prova.

Ma non basta insegnare. Serve educare che vuol dire trasmettere, partecipare e condividere, e non solo con le parole. Ed è prima di tutto dare esempio.

Giuseppe Maiolo
psicoanalista
Università di Trento



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