14 Settembre 2020, 16.28
Blog - Genitori e figli

La malvagia crudeltà del branco non è patologia

di Giuseppe Maiolo

“Sei ancora quello della pietra e della fionda uomo del mio tempo”. Scrive il poeta ed evoca solo in parte la malvagità umana che sembra immutata e inarrestabile. Non la descrive Quasimodo, e non nomina quali azioni bestiali sa compiere l’individuo da solo o nel branco. Ma forse non serve che ce la mostri


La conosciamo bene ormai quella “banalità del male” che attraversa ovunque il nostro quotidiano reale o virtuale che sia. E non serve che, ad ogni nuovo Colleferro che incontri, ci sia la solita immediata reazione verso la gioventù violenta dei nostri giorni che pensi disturbata e malata. Non ha senso provare sconvolgimento e raccapriccio se poi tutto si dimentica in fretta e ogni storia archiviata senza un ripensamento della coscienza.

La malvagia crudeltà, apparentemente inspiegabile, che diventa massacro disumano ai confini della realtà, non può essere spiegata solamente con la follia che travolge la mente. Anzi non c’entra proprio nulla la patologia con quel gruppetto di picchiatori che si accanisce su un giovane di 21 anni inerme e delicato, colpevole di essersi fermato a soccorrere un amico. Ed è sconvolgente scoprire dalla cronaca dell’orrore l’assenza di una motivazione e la freddezza del branco che uccide senza una parola, con accanimento e determinata ferocia.

“Ricordo subito l'immagine di Willy steso a terra circondato da 4 e 5 ragazzi che lo colpivano violentemente con calci e pugni… ” recita un passo del verbale di uno dei testimoni chiave che trovi in questi giorni a raccontare il delitto.

Disorienta chiunque, come in ogni macabro scenario del male, vedere il prevalere delle pulsioni sull’autocontrollo, l’incapacità di gestirle e il sopravanzare degli istinti selvaggi che la povertà educativa di oggi non riesce a contenere né a regolare. Allora capisci che tra i giovani cresciuti senza limiti e confini, il sentimento infantile dell’onnipotenza scatena l’atrocità dei gesti e alimenta la cultura della sopraffazione.

È il fascino del protagonismo, dell’essere visti ad ogni costo, la spettacolarizzazione del male che prendono il sopravvento, anestetizzano la coscienza e rendono “normale” e omologata la violenza. Come nel gioco infantile del bullo, anche nel movimento micidiale del branco si manifesta il piacere che procura il mettere in scena e mostrare al mondo la forza di un corpo scolpito di muscoli.

Ciò che si rappresenta di più ora che il corpo è evaporato nel virtuale, è però l’incapacità crescente di sentire l'altro e percepire il suo dolore fisico. E' il vuoto di partecipazione emotiva o la totale mancanza di un sentimento di colpa che ti avvicina alla reale sofferenza.

Questo è il male che affligge di più e contamina le generazioni del terzo millennio. Si chiama psicopatia, cioè psiche apatica, che prima ancora di essere un disturbo di personalità, è deficit di emozioni, siderale distanza affettiva dall’esperienza di chi ti sta vicino o di fronte. Un tratto diffuso nella società del narcisismo, dove primeggiano individualismo e indifferenza che assottigliano la riprovazione sociale verso i comportamenti violenti che andrebbero contenuti e non normalizzati.

Urge riflettere su questa dinamica, se vogliamo rimodulare il progetto educativo per le nuove generazioni. Ma serve a poco farlo solamente sull’onda della rabbia che monta quando un giovane innocente viene massacrato. Urge aprire cantieri di lavoro e di riflessione a scuola con gli adolescenti e i bambini che ogni giorno possono incontrare l’intolleranza e la violenza fisica o verbale dei pari ma anche la disattenzione e la trascuratezza degli adulti.

Giuseppe Maiolo
Università di Trento



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