01 Settembre 2020, 06.38
Blog - Circolo Scrittori Instabili

Smarrirsi

di Bianca Patrizi

«Io lavoro al bar di un albergo a ore. Porto su il caffè a chi fa l’amore… »...


... Non è esattamente così, ma quasi. Nel senso che spazzo e spolvero e rassetto i vagoni del treno dopo che la locomotiva, con un sospiro fra stanchezza e soddisfazione, lo lascia al capolinea. Lavoro di lena, ma con coscienza, perché mi piace fare le cose per bene; mi dà la sensazione di togliere le tristezze che i viaggiatori abbandonano su quei sedili per ricoprirli con nuove speranze. Una sorta di velo di fiducia che stendo con affetto affinché nuovi pendolari le ritrovino il mattino seguente, magari quando salgono ancora un po’ insonnoliti, ma già stanchi all’idea di affrontare un’altra giornata che a loro appare greve e grigia anche nelle più belle mattine di sole.

«Vanno su e giù coppie tutte uguali, non le vedo più manco con gli occhiali»

E nemmeno questo è vero fino in fondo perché io non vedo i passeggeri, non fisicamente intendo, ma li intuisco attraverso gli oggetti che dimenticano nei vagoni: un libro, una sciarpa, un portafoglio scivolato fuori dalla tasca dei jeans, il tacco di una scarpa e talvolta, spesso purtroppo, il sudiciume che spargono intorno al loro sedile.
Non è il vomito che mi indigna, talvolta il bagno è troppo lontano o è occupato, sono le bucce di mandarino, le bottiglie vuote di birra, il contenitore delle patatine fritte o degli hamburger, i leggeri gusci d’arachide con quella pellicina rossastra, croccante e leggiadra che vola dispettosa dove ho appena passato l’aspirapolvere.

Mi chino – toh, guarda! Un bottone dorato e qui, incastrato nell’angolo, un accendino – il cellulare si sgancia, lo riacchiappo al volo sfiorando il tasto sbagliato.

«E il treno corre forte, il treno va lontano e il quadro cambia sempre da dietro al finestrino… »

Come le canzoni che si susseguono nella mia play list.

I treni di oggi sono decisamente più confortevoli di quelli di una volta: sedili imbottiti, aria condizionata d’estate e riscaldamento quando fa freddo, distributori di snack e bevande e velocità assicurata che riduce le attese. Per non parlare dei telefonini che mantengono contatti, prevedono le temperature all’arrivo, informano dei ritardi, delle possibili coincidenze, permettono prenotazioni on line, indicano la via più breve per raggiungere la destinazione una volta scesi dal treno.

Una manna per me che mi perdo nel mio monolocale.

Tutto di corsa, tutto previsto, tutto calibrato, tutto scontato e il più lieve inciampo è motivo di impazienza, di insofferenza, di rabbia.

Dov’ero arrivata? Ah, sì, terza fila.

Chissà come facevano una volta? Come si faceva quando ero piccola io?

Si aspettava. L’autobus, la lettera, la telefonata, la neve a Natale e che gioia alzarsi una mattina e scoprire che tutto intorno era diventato bianco… La meraviglia. Lo scricchiolio sotto la suola delle scarpe. Le palle di neve. Roba d’altri tempi. E l’immagine di quell’ultimo vagone andato in pensione tanti anni fa mi torna in mente e mi ci perdo. No. Mi ci smarrisco.

Buffo, come anche le parole si siano smarrite con l’andar del tempo. Perdersi è molto più moderno. Una parola ridotta nei suoi confini. Smarrirsi spazia e sa di antico. Ho riletto cinque vecchi romanzi di mia nonna e ho contato quante volte l’autore ha usato il verbo smarrirsi in quelle pagine: 57 volte.

«Il cielo che si smarriva nel mare. Incontrò i suoi occhi, si smarrì, tacque all’improvviso. Quando l’azzurro si smarrisce in un delicato colore di perla. Rivedeva i suoi occhi smarriti… »

“Perché? Li ha persi?”, mi domanderebbe perplessa mia nipote se mai le parlassi di occhi smarriti. Ma lei è giovane, figlia dei bit, dei bite e dei chip. Non credo nemmeno che troverebbe fascinosa quell’immagine del vecchio vagone vuoto pieno di storia.

I sedili di legno lucidi dall’usura, il supporto dei braccioli e dei porta-bagagli in alto di ferro battuto sagomato, le spesse tendine di stoffa ai finestrini, l’alta portiera con la pesante serratura meccanica e, soprattutto, quelle lame di luce che fendono la penombra del vagone e la esaltano in un gioco di chiaro-scuro che abbaglia o culla dolcemente.

«… e pensavo dondolato dal vagone, cara amica il tempo prende il tempo dà… »


Già! Comunque corre, e io sono ancora qui inginocchiata a gingillarmi con i miei pensieri vaganti, ma non riesco a non immaginare le signore nei loro fruscianti abiti lunghi, attillati, le mani guantate, i copricapo con veletta e in mano una cappelliera tonda e ingombrante che certo le impicciava, è vero, ma sicuramente qualche giovane ufficiale le avrebbe cavallerescamente aiutate a riporla sulla retina con un galante: «Permette, signorina… » e un accenno di inchino.
Un Conte Vronkskij in piena regola, letale e fascinoso come la Tarantola dalle scarpette rosse che ho visto in una mostra di aracnidi a Villa Alba, se non ricordo male, tanti anni fa. Ero rimasta incantata a fissare quella livrea di velluto nero con la punta delle otto zampette rosse, come intinte nella cera lacca. Lo stesso colore smagliante delle mostrine rosso fuoco che risaltavano con i bottoni dorati sulle uniformi bianche degli ufficiali di fine ottocento, mentre piroettavano in walzer turbinosi provocando nelle loro dame avvolte in veli e pizzi fluttuanti un meraviglioso smarrimento.

«… l’oscurità ci avvolge, prendi il dono che la vita ci porge… »

Dov’ero rimasta?

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Per gentile concessione del Circolo Scrittori Instabili, blog sul quale si sperimentano gli appassionati che hanno frequentato i corsi di scrittura creativa tenuti da Barbara Favaro.




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