Elogio di un cavaliere
di Luciano Pace

C’è stato un tempo in cui si era soliti elogiare gli uomini illustri nel giorno del loro trapasso nell’al di là. L’elogio era proposto durante i riti funebri. In questi giorni di sospensione dei riti funebri, almeno le parole siano segno del valore di un cavaliere defunto


Lo ha fatto promettere ai suoi figli qualche giorno prima di morire: “Non scrivete sul mio manifesto funebre che sono stato Cavaliere della Repubblica”. E i suoi figli hanno obbedito, in rispetto della straordinaria umiltà di un padre morente. Tuttavia, una simile umiltà non può non essere onorata. Va fatta conoscere! Chi è molto giovane deve comprendere che cosa significhi la vera “statura umana”, soprattutto in un mondo in cui i più cercano fama e successo personale, incuranti di compiere ciò che è giusto e buono nel nascondimento, agli occhi di Dio e di pochi cari.

Perciò, queste mie parole faranno forse torto al desiderio di un cavaliere morente. Tuttavia, sono certo che egli mi conoscesse e mi amasse abbastanza da sapere che avrei infranto questo suo volere. Perché ci sono occasioni in cui anche i giuramenti vanno infranti, soprattutto se celano un’abbondanza di senso, di valore e di verità per la vita umana e per la cittadinanza civile, come in questo caso.

Egli, fra l’altro, sapeva che gli dovevo un ultimo discorso. Molti, infatti, ne abbiamo scritti insieme: lui metteva il senso ed io scrivevo. Simili a due orafi fummo in quei momenti: lui mi offriva gratis parole preziose, trovate nelle grotte profonde del suo animo.
A me toccava solo incastonarle in una pagina, perché risaltassero in tutta la loro bellezza. Anche in quei momenti brillava più di ogni mia povera parola la sua straordinaria modestia.

Chi fu, dunque, questo prode cavaliere d’umiltà che, simile a Parsifal nella grotta del Graal, conquistò la vita eterna nel nascondimento? Non vi dirò subito il suo nome da mortale. I nomi non aiutano a conoscere le persone.
Quando si legge su un necrologio il nome di un defunto sconosciuto, quel nome non dice nulla di lui, se non che è compianto da chi lo amava. Sono le azioni che determinano il significato della vita di una persona!
Soprattutto dopo la morte, la quale fra i molti suoi odiosi difetti, porta almeno con sé il pregio di mettere in risalto con chiarezza chi è stata realmente una persona defunta.
Dalle sue azioni, quindi, voi che leggete lo riconoscerete in queste mie parole. Esse sono simili ad uno specchio d’acqua immobile che fa intravedere il fondamento profondo di una vita, proprio mentre la rispecchia in tutto ciò che di essa si mostra in superfice.

Come ogni cavaliere rispettabile, anche il nostro dedicò la vita a servizio degli altri. Scelse di farlo da imprenditore. Dar lavoro ai suoi operai era una delle sue preoccupazioni fisse.
Anche nei periodi di crisi economica, cercava ogni modo legale per non far mancare il pane quotidiano sulla tavola dei suoi collaboratori. Pur essendo il capo-azienda, non esercitò mai la sua autorevolezza in forma arrogante o supponente. Cercava, piuttosto, di guadagnarsi la fiducia dei suoi lavoratori con la bontà, chiedendo loro sacrifici sempre ricambiati da una lauta paga.
Anche a chi batteva un po’ la fiacca permetteva di essere fra i suoi. A suo giudizio, infatti, un’impresa doveva essere anzitutto efficiente in fratellanza: il guadagno economico ne era solo un effetto collaterale. Così egli pensava “ol fodenet”: un fucinino di produzione di umanità oltre che di beni artigianali.

A livello imprenditoriale, molti lo ricorderanno per aver inventato una valvola a pressione. Altri, per la produzione di manicotti in plastica. Tuttavia, il suo valore nell’industria non risiede in ciò che ha ideato artigianalmente, per quanto importante.
La sua statura di imprenditore si mostrò nell’essere in grado di risollevarsi dalla crisi dopo la cessione della sua prima azienda, una fra le più importanti oggi a livello italiano.
Non si arrese: caduto a terra, si rialzò in piedi e aprì una seconda piccola impresa. Ecco dove sta la tempra tipica di un cavaliere: non rimanere al tappeto dopo esser stato disarcionato da cavallo, ma affrettarsi per tornare in sella, a combattere la giusta battaglia del commercio per amore dei suoi operai e dei suoi cari.

Saremmo in errore, tuttavia, se lo ricordassimo solo come imprenditore in faccende umane. Un vero cavaliere è sempre in primo luogo votato a Dio. La premura verso gli uomini è solamente l’esito della salda fedeltà al Signore degli eserciti.
Perciò, egli volle diventare anche artigiano di cose divine.
Costruì, quasi tutto a sue spese e con la fatica delle sue braccia, un santuario alla Madonna e, lì nei pressi, un rifugio per onorare, ponendoli sotto il manto dolce di Maria, i Fanti d’Italia del suo paese adottivo, morti durante le due guerre mondiali. Fu per questa sua opera di devozione a Maria e all’Italia che fu insignito del titolo di “Cavaliere della Repubblica”.

Certamente una simile circostanza onorifica potrebbe stonare a chi pensa ad una Repubblica Italiana totalmente indipendente dalla fede cattolica. A tutti questi cittadini increduli la fulgida testimonianza di un cavaliere di Maria mostri che cosa sia l’accordo reale fra fede e cittadinanza, ovvero l’aver scolpiti nel cuore i due rami, di alloro e di ulivo, impressi sullo stemma della Repubblica.
In un tempo in cui si immagina la cittadinanza a prescindere dalla fede, quasi questa fosse solo un orpello di cui fare a meno o un gingillo da sfoggiare privatamente, la robustezza della fede pubblicamente professata da un cavaliere sia per tutti chiaro esempio di una laicità repubblicana ancorata a salde radici cristiane.

Non contento, alcuni anni dopo aver eretto il santuario a Maria, decise di istallare lungo il percorso che ivi conduce una via crucis. Seppur non avesse studiato teologia, possedeva un acuto intelletto per le questioni di fede.
Egli sapeva che la devozione a Maria non può essere scollegata all’adorazione di Cristo crocifisso. Intuiva, infatti, che il fedele cristiano doveva contemplare il mistero della passione, morte e resurrezione di Gesù con gli stessi occhi di Maria addolorata.

Siffatte considerazioni non inducano a ritenere che egli considerasse la fede un insieme di gesti e di pratiche esteriori. In quanto cavaliere, la devozione a Cristo era per lui di vitale importanza.
Ne divenne consapevole pienamente dopo la sua conversione, quando ottenne la salvezza dalla più terribile malattia che colpì il suo animo: l’alcolismo. In seguito alla guarigione definitiva da questo malanno, operò instancabilmente per aiutare molti altri a sconfiggere la stessa malattia, compreso mio padre.
Con coraggio e senza timore di giocarsi la reputazione, divenne parte attiva del gruppo “alcolisti anonimi” della sua valle, rinunciando al suo anonimato. Decise di presentarsi pubblicamente come alcolista e non come cavaliere! Chi può negare nell’esercizio di una tale libertà la presenza del sigillo di umiltà tipico della fede in Cristo?

Se tutto ciò non bastasse ancora, egli fu un fratello protettivo, un marito sempre fedele, un padre amorevole, un nonno tenero ed un suocero paterno. Forse, un unico aspetto della sua vita potrà risultare difettoso a chi è ambientalista: il fatto che fosse un appassionato cacciatore. Tuttavia, anche in questo egli si distingueva.
“Gli uccellini sono tutti del Signore, non dello Stato o dei Verdi: egli li offre in dono a chi li caccia in suo nome”, soleva ricordare in tono polemico a me ed altri che lo incalzavamo sull’argomento. E aveva ben ragione. Infatti, come recita il salmo 83:
“Anche il passero trova la casa, la rondine il nido, dove porre i suoi piccoli, presso il tuo altare Signore degli eserciti, mio re e mio Dio”. Egli sapeva di essere vassallo di un Signore premuroso sia verso gli uccelli del cielo, sia verso i fedeli che li cacciano rispettando la sua signoria.

Presso gli altari del suo Signore si trova ora il suo servo e lì riposa all’ombra di un roccolo pieno di uccelli risorti, che cantano le lodi di Dio per cullarlo.
Fu davvero un uomo tutto d’un pezzo questo cavaliere e meritava di essere onorato almeno con qualche parola degna delle sue opere, in giorni in cui nemmeno le semplici esequie sono dovute a chi meriterebbe una solenne cerimonia pubblica.

Ora, anche chi dovesse ancora ignorarne l’identità, per non aver avuto il previlegio e la fortuna di conoscerlo, scolpisca nella sua memoria di cittadino il nome dello stimato cavalier Gualtiero Ghidini.
Perché l’Italia che si rialzerà dall’attuale pestilenza sia fatta da uomini e cittadini del suo calibro.

Luciano Pace

.foto di repertorio


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