Re Magi 2.0
di Ezio Gamberini

Roberto Melchiori avrebbe lavorato anche quel Natale. Turno di notte, dalle dieci di sera della vigilia fino alle sei di mattina, all’ospedale Maggiore della grande metropoli, reparto maternità…


Già da parecchi anni gli capitava, ma non se ne doleva più di tanto. Restare a casa quel giorno senza la sua piccola Sofia, che gli era stata portata via da una leucemia fulminante, dieci anni prima, sarebbe stato insopportabile. E poi c’era anche un altro motivo…
Con sua moglie erano riusciti a superare i terribili momenti che seguirono l’atroce avvenimento, perché si volevano bene, e soprattutto erano consapevoli di aver vissuto sei anni con un angelo, che a un certo punto, chissà perché, era tornato in cielo.

Nessun genitore, mai, dovrebbe sopravvivere ai propri figli.
Ma succede, ed è quasi disumano. Tuttavia Roberto e sua moglie, affranti ma sereni, anche se in seguito non arrivò più nessun figlio, proseguirono la loro esistenza impegnandosi nelle rispettive attività lavorative, non chiudendosi nel proprio guscio, ma anzi aprendosi agli altri, interessandosi a iniziative sociali in diversi ambiti, in modo attivo e propositivo.

E poi a Roberto, qualche giorno dopo la scomparsa della sua piccolina, capitò una cosa straordinaria: a ogni nuova nascita, nel suo reparto, dopo che i neonati erano adagiati nelle culle, spuntavano due manine che si appoggiavano ai tubolari metallici dei lettini.
La prima volta che accadde, Roberto guardò allibito quelle manine e disse a Renato, il suo amico e collega:
“Ma, ma… le vedi quelle manine sulla culla?”.

Il compagno non vedeva nulla
, e lo prese anche un po’ in giro. Poi, osservando meglio, dietro quelle manine comparve il viso di una bambina bellissima; Roberto riconobbe la sua Sofia, che veniva a dare il benvenuto a ogni nuovo nato!
Soltanto lui la vedeva, ed era una grande consolazione.

Quella vigilia di Natale era di turno anche Renato, infermiere professionale come lui, e pure l’altro amico e collega Remo, medico responsabile del reparto; il trio costituiva la “quota” maschile in mezzo alle altre ventotto colleghe femmine della Maternità-Ostetricia-Ginecologia del grande nosocomio cittadino.

Poco prima di mezzanotte, terminate le incombenze d’inizio turno e visto che era tutto tranquillo, uscì a fumarsi una sigaretta in giardino, che era proprio accanto al reparto, in una zona centrale della grande città in mezzo a un traffico caotico.
Accanto al cancello notò una coppia che indugiava, lei con un pancione enorme, indecisa sul da farsi: erano lì impalati e si guardavano intorno, fino a quando incrociarono il suo sguardo.

Si avvicinò e chiese loro:
“Avete bisogno?”.

Scoprì che la ragazza aveva cominciato il mattino ad avere le doglie, ma dopo qualche ora era sopravvenuta un’emorragia e aveva cominciato a star male, ora non ne poteva più, e anche se clandestina, tentava di farsi ricoverare, con la possibilità di essere respinta.

Siamo qui da quattro anni, quando siamo arrivati con i barconi – gli rivelò l’uomo, un bel ragazzo alto e sveglio che parlava un italiano quasi perfetto – lavoriamo in una fabbrica, in nero, e abitiamo in una stanza di venti metri quadrati al piano interrato del laboratorio insieme con altri otto. Ci siamo conosciuti lì. Noi non esistiamo, non dobbiamo creare problemi, altrimenti ci rimandano indietro e perdiamo tutto… ma ti prego amico, aiutaci, lei sta proprio male!”.

In effetti la ragazza era proprio conciata malissimo, perché scostando il pastrano che indossava si vedevano i vestiti inzuppati di sangue.
Allora Roberto chiamò il collega Renato al cellulare affinché lo raggiungesse con una barella e avvisasse Remo che stavano per arrivare: c’era subito da intervenire!
Avrebbero corso dei rischi, prestando assistenza a chi non poteva ottenerla?

I tre se ne infischiarono, tirarono dritto e andarono fino in fondo, perché per loro una vita umana contava più di ogni regola.
La ragazza se la cavò per un pelo, ma il bambino che nacque era bellissimo; pareva quasi che il dolore dovesse essere di esclusiva pertinenza di sua madre, a completo carico suo, e quando poco dopo la mamma si svegliò e poté abbracciare per la prima volta il suo piccolino, chiese:

“Ma chi era la bambina che mi teneva per mano quando stava per nascere mio figlio?”.
Sofia era lì, a sostenerla, e quando più tardi distesero il neonato nella culla, come sempre appoggiò le sue manine al tubo metallico, e restò lì a rimirarlo, mentre Roberto osservava la scena, con vicino gli altri due amici.

“Ciao papà, buon Natale”,
gli disse con un sorriso la piccola.

“Ciao amore mio…” rispose il papà, mentre i colleghi lo fissavano turbati, così come avvenne il Natale precedente, e quello dell’altro anno, da dieci anni; a ogni Natale, che attendeva trepidante, la sua piccolina gli rivolgeva quest’augurio, rendendolo felice.

Davvero sembrava di essere al cospetto di Gesù Bambino che nasce, e forse il Bambinello in quella notte di Natale era proprio lì in mezzo a loro, i tre “Re Magi 2.0”: Roberto Melchiori, Renato Baldassari e Remo Gaspari.

L’originale fotografia che accompagna il racconto è stata ideata e scattata da Grazia

Ezio Gamberini

 


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