Migranti di oggi e di ieri (4)
di Ernesto Cadenelli

Nel 1881, venne pubblicata una denuncia, poi sfociata in una conferenza a Parigi sulla “tratta delle bianche”...

 
Da Napoli partivano decine di poverette mandate nei bordelli dell’Africa orientale. Il tutto sotto lo sguardo dell’ufficio emigrazione della città.
Arrivavano richieste di “fanciulle bionde e di esile corporatura”. Non si sa come venissero adescate, quanti anni avessero, il loro nome.
Si sa qual era il destino: dai bordelli di lusso iniziali, sempre più in basso finché malattie o morte non le cogliessero.

Bossi 30 anni fa sbraitava che “cosche malavitose extracomunitarie, stanno trasformando l’Italia in grande bordello”, annunciando l’arrivo di un milione di prostitute clandestine spacciate per colf.
Non molto differente dalla fama che si erano fatte quelle poverette italiane anni prima.

Due fratellini morti di tisi e cancro nelle vetrerie francesi, erano stati comprati per 100 lire a inizio ‘900. Con quei soldi non compravi molto, forse cibo per un mese o poco più.
Eppure a migliaia furono venduti dai genitori ai “nuovi negrieri”, i quali li affittavano ai vetrai incassando il loro salario.
Potevano arrivare fino a 8.000 lire l’anno senza far nulla.

Quei poveri fanciulli erano distrutti dal sonno e fatica, si trascinavamo malamente, ma alla domanda come si trovassero rispondevano sempre “siamo contenti, qui si mangia...”.
Le lettere alle famiglie erano scritte direttamente dai padroni (i bambini erano per lo più analfabeti) e dicevano: “Caro padre e cara madre, io sto bene assai di salute, meglio di voi! Il padrone non ci fa mancare niente...”

“Gamin e porteur” erano lavori dei fanciulli.
Il primo davanti ai forni a 1400 gradi, il secondo spostando migliaia di bottiglie calde finite al giorno. Erano bambini che non superavano i tredici anni, spesso neanche gli otto. I francesi sapevano bene che quel lavoro era un inferno, mica ci mandavano i loro figli.

L’Italia, il paese delle mamme, ha venduto figli a tutti: in Europa a vendere statuine; a pulire i camini, poiché mingherlini, a Parigi e in Olanda; nelle fornaci di Baviera, Austria, Ungheria.
E poi ai piccoli imprenditori edili svizzeri che lavoravano solo coi bambini a costruire edifici; o a Detroit, dove bimbi di otto anni aiutavano a scavare gallerie trasportando pesanti secchi di acqua; o in Canton Ticino, dove i marmisti avevano il 18% di manodopera infantile.

Oppure nelle miniere di carbone del Gard, dove l’estrazione avveniva in spazi che non arrivavano al metro di altezza e i ragazzi spingevano carrelli fino a 300 chili di peso. Per non parlare dei piccoli mendicanti rastrellati nei paesi e mandati a svolgere questa mansione fortemente umiliante.
Bambini marchiati alle orecchie, tenuti in condizioni di schiavitù e con un altissimo tasso di mortalità.
Semmai, oggi, al livello di sfruttamento e abbandono dei minori in mano ai trafficanti di essere umani si è aggiunto un nuovo business, il trapianto e il commercio di organi umani.

L’emigrazione in Svizzera è stata tormentata e traumatica per oltre un secolo.
E periodicamente riaffiora l’idea di referendum per chiedere l’espulsione dei troppi migranti, che non sono africani o asiatici, bensì soprattutto italiani. 
La Svizzera ha 5 milioni di abitanti, circa 1 milione di immigrati di cui 700.000 di origine italiana. Per anni le autorità elvetiche hanno resistito alle richieste dei nostri di potersi ricongiungere con le famiglie.
I familiari sono “braccia morte” che pesano sulle nostre spalle. Questo veniva detto.

Ed è per questo che migliaia di bambini italiani, circa 30.000 verso la metà degli anni ‘70, sono entrati clandestinamente e tenuti nascosti, sepolti vivi per anni, senza possibilità di farsi vedere o di frequentare la scuola.
Raccontano alcuni testimoni: “organizzavamo scuole clandestine, frequentate dopo il calar della sera, quando tutti i lavoratori erano rientrati dai cantieri e intorno regnava il silenzio”.

Poiché la Svizzera aveva bisogno di “braccia e non di uomini”, il permesso annuale di lavoro veniva interrotto all’undicesimo mese, obbligando il titolare a rientrare in Italia.
In tal modo egli perdeva qualsiasi sogno di integrazione nello stato sociale della confederazione.
Regolarmente, passato l’inverno veniva richiamato per un altro permesso annuale, che puntualmente veniva interrotto all’undicesimo mese.
E così per anni.

Molti anche delle nostre zone, dopo la chiusura degli stabilimenti tessili negli anni ‘50 hanno seguito questa trafila.
La lettura del libro “Nudi col passaporto” dà uno spaccato terrificante dei luoghi comuni e delle fandonie per screditare gli italiani causa di tutti mali della società elvetica.
Eppure ne avevano e ne hanno bisogno come il pane.

Noi in Italia abbiamo ripercorso queste strade.
Nel 2002, anno di varo della legge Bossi-Fini che prevede il reato di clandestinità, l’italianità era inquinata (sic!) dalla presenza del 2% di stranieri.
Da allora tutto il problema è stato gestito sull’onda dell’emergenza, con qualche mega sanatoria ogni tanto per ridurre il numero dei clandestini, che altro non erano che persone e lavoratori, in attesa che la burocrazia desse loro una risposta sul permesso di soggiorno.

Poche le politiche di reale integrazione, pur sapendo della necessità che il Paese ha di manodopera straniera a fronte dell’invecchiamento della popolazione e della scarsa propensione degli italiani a svolgere lavori gravosi e dequalificati. Appunto, il bisogno di braccia.
I clandestini per definizione non si conoscono e non si vedono, gli integrabili sono alla luce del sole.

La luce del sole significa più sicurezza e più relazione per tutti.
Siamo ancora qui a decidere se respingimenti o integrazione per chi arriva, senza uno straccio di proposta e volontà politica costruttiva e solidale. 
Anzi spesso esasperando le situazioni per mere finalità elettorali.

Del resto lo ammette lo stesso Salvini che per espellere i famosi 600.000 clandestini servirebbero 80 anni, altro che “li rimpatrieremo in 48 ore!”.
Solo che nel frattempo ne arriverebbero altri e il giro ricomincia.
Forse non abbiamo ancora introitato che “ci servono braccia, e che esse appartengono a uomini e donne”

Ernesto Cadenelli

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(Fine)


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