Migranti di oggi e di ieri (2)
di Ernesto Cadenelli

Emigrare non è una pacchia. Se proprio non ce la facciamo a immedesimarci in quegli uomini, donne e bambini...


...che ai nostri giorni salgono a bordo dei gommoni dei trafficanti di uomini per approdare sulle nostre coste, possiamo almeno credere ai racconti dei nostri connazionali ai quali toccò di avventurarsi per mare o per terra “a sercà fürtüna”.
Quante vessazioni, quante violenze quotidiane è toccato loro sopportare in terra straniera!

Quanti epiteti beccati senza potersi difendere: rospi, accoltellatori, ubriaconi, pipistrelli, mafiosi, sporchi italiani etc.
Quanti lavoratori migranti morti alla miniera di Marcinelle, lavoratrici migranti bruciate nell’incendio della fabbrica Triangle a New York nel 1911.
Ci sono tante testimonianze che possiamo leggere nei libri di G. A. Stella (l’orda e odissee), documentazione che ha fornito un contributo prezioso alla ricostruzione della memoria storica nazionale.

E’ fondamentale conoscere il nostro passato, troppo spesso dimenticato. Serve per capire, rispettare e amare ancora di più i nostri nonni, padri e madri o parenti che partirono.
Così come dovremmo rispettare i nostri figli costretti a espatriare oggi e tutti gli sconosciuti che arrivano da Paesi lontani, ma che fanno quello che facevano i nostri.
Anche gli Italiani non erano molto amati! Non erano “migliori”. E se i nostri non se la spassavano, non lo fanno neanche loro, checché ne dica Salvini.

Quando gli immigrati eravamo noi, espatriavamo illegalmente a centinaia di migliaia, ci linciavano come ladri di posti di lavoro, ci accusavano di essere tutti mafiosi e criminali.
QUANDO GLI IMMIGRATI ERAVAMO NOI, ERA SOLO IERI...

E non è cambiato niente. I poveracci restano poveracci, anche se hanno altri passaporti.
Chi partiva per le Americhe metteva in conto che avrebbe potuto non farcela. La traversata non era proprio una CROCIERA.
Sfidando malattie, tempeste e angherie dell’equipaggio i migranti viaggiavano su grosse navi, nella famigerata terza classe. Una sorta di carro bestiame galleggiante, fatto da migliaia di cuccette strette le une alle altre, dove uomini, donne e bambini vivevano per settimane in condizioni pietose e prive di igiene.

Riporta nel 1908 T. Rosati, un ispettore sanitario sulle navi degli emigranti
: “Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con il piatto tra le gambe e il pezzo di pane tra i piedi, mangiavano il loro pasto come i poverelli alle porte dei conventi. E’ un avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare, sulla quale si rovesciavano tutte le immondizie volontarie e involontarie di quelle persone viaggianti.”

In fondo al mare ci finirono anche i nostri che si imbarcavano, nei viaggi della speranza, sulle carrette del mare adattate al trasporto di “tonnellate umane” (così erano chiamati i nostri nonni che migravano).
Tanti finirono in pasto ai pesci nei vari naufragi. Come quello del “Principessa Mafalda”. 

Scrive Stella:Nel 1927 era ancora la nave ammiraglia della nostra marina commerciale, ma dopo aver scaricato in Sud America migliaia e migliaia di poveretti, in un via vai incessante sulla rotta di Buenos Aires, era ormai acciaccata.
Le macchine non marciavano a dovere ma la nave partì lo stesso da Genova. E dopo tre giorni s’inoltrò nell’Atlantico nonostante i motori si fossero già fermati otto volte. A Dakar, nuova sosta e nuove riparazioni, ma decisero di andare avanti lo stesso, con la nave piegata di lato “che i bicchieri si rovesciavano sui tavoli”.


Finché l’asse porta elica di sinistra si sfilò, la nave cominciò a imbarcare acqua e si scatenò il panico. Il capitano cercò per ore di mettere ordine nell’evacuazione, revolver alla mano. Ma i passeggeri terrorizzati erano troppi, le scialuppa poche. E tra le acque arrivarono subito sciami di squali bianchi. Morirono in 385. Ma la notizia col numero dei morti finì dopo tre giorni su un giornale, in un titolino neretto corpo sette” (praticamente invisibile).

Oppure la tragedia dell’Utopia, nome di nave che richiamava a un sogno... Era il 7 marzo 1891, salpò con 3 passeggeri in prima classe, 59 di equipaggio e 813 emigranti di ogni regione, 661 uomini, 85 donne e 67 bambini.
Al largo di Gibilterra, con mare fortemente burrascoso, speronò un piroscafo e si inabissò. I soccorsi, causa la forza dell’uragano, non poterono avvicinarsi al relitto e morirono quasi tutti tra urla disperate e lotta per aggrapparsi a qualsiasi cosa potesse rappresentare la salvezza. Molti corpi si sfracellarono contro gli scogli. Un cadavere aveva a tracolla una sacca con salame e fichi secchi, cibo per la traversata. Purtroppo episodi così drammatici si verificarono fino agli anni ‘30. Pochi furono i processi e le forme di risarcimento. Spesso erano disperati sconosciuti.

Sul piroscafo “Remo” esplose il colera. In vista di Rio De Janeiro, a un passo dalla salvezza, incominciarono a morire. Non per il contatto tra italiani provenienti da regioni dove potevano esserci sintomi (secondo forme di razzismo ancora oggi dure a morire verso i meridionali!); bensì il pericolo era in agguato per quell’essere stipati in 1500, spossati dal viaggio, dalla fame e dal mal di mare.
Non era sola quella nave, altre ebbero la stessa situazione con decine di cadaveri.

Altra testimonianza di un contadino di Treviso, che spedì una lettera dall’Argentina nel 1889 che racconta a proposito del viaggio il suo terrore solcando l’Atlantico che separava la miseria italiana dal grande sogno americano:

“Non trovo parole adeguate per descriverle per l’intiero lo sconvolgimento del piroscafo, i pianti, i rosari e le bestemmie di coloro che hanno intrapreso il viaggio involontariamente, in tempo di burrasca. Le onde spaventose s’innalzano verso il cielo, e poi formano valli profonde, il vapore è combattuto da poppa a prua, e battuto dai fianchi.
Non le descriverò gli spasimi, i vomiti e le contorsioni dei poveri passeggeri non assuefatti a così tali complimenti. Tralascio di dirle dei casi di morte, che in media ne muoiono cinque o sei per cento, e pregare il supremo Iddio che non si sviluppino malattie contagiose, che allora non si può dire come andrà.”


Ricordare quei viaggi epici, sovente tragedie immani, significa colmare un vuoto che ci aiuta a capire la nostra storia, rendere onore ai tanti che si sono sacrificati per cercar fortuna.
Al tempo stesso ci aiuterebbe a capire meglio le tragedie dell’oggi, i morti di Lampedusa e i morti di Capo Passero, finiti in fondo al Mediterraneo per aver voluto cercare fortuna.
Il viaggio era tremendo, ma anche l’accoglienza era sconfortante.

Alla prossima puntata.
Dossier

Ernesto Cadenelli
Vobarno novembre 2018

.In foto: in alcuni casi non si sa quante fossero le vittime dei naufragi, i superstiti furono riportati in Italia in più viaggi.



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