Il mio amico Fabio
di Ezio Gamberini

“Dai, svelto, dobbiamo fumarle tutte e venti, e abbiamo soltanto mezz’ora!”, dissi al mio amico Fabio, vent’anni in due perfettamente ripartiti, essendo coetanei, mentre c’eravamo nascosti al lavatoio sul fiume, una domenica pomeriggio di quasi mezzo secolo fa…


Era un pacchetto da venti di Gala, che avevamo comprato unendo i nostri risparmi e forse dopo aver svaligiato qualche salvadanaio, mentendo al tabaccaio: “Sono per il mio papà…”; sì, figurati, allora ci si conosceva tutti in paese e mio papà a quel tempo fumava le “Astor”.

Così, raggiunto di soppiatto il lavatoio sul fiume accanto alle scuole, che di domenica era deserto, aprimmo il pacchetto e in pratica accendemmo le sigarette una dopo l’altra, in maniera compulsiva, con i fiammiferi che avevamo sottratto alle nostre mamme.
Com’è ovvio, ne fumammo rigorosamente dieci a testa, “tirando” qualche boccata e gettandone la maggior parte nel fiume, perché non si poteva tornare a casa con il “corpo del reato”, e non avevamo tempo da perdere.

Abitavamo nello stesso condominio, quelle “Villette” costruite nel 1959 in Via Roma, così rinominate perché furono i primi appartamenti popolari del paese edificati con il riscaldamento autonomo e un termosifone per ogni stanza, insomma, roba da “siori” per quel tempo.

Fabio stava al terzo piano, che al giorno d’oggi sarebbe considerato il secondo, perché allora non si era troppo sofisticati per considerare “piano terra” l’effettivo “primo piano”, dove invece abitavo io.

Sul suo balcone perciò, a una decina di metri d’altezza, trascorrevamo interi pomeriggi lanciando gli aerei di carta che costruivo, arte in cui ero davvero provetto, e li osservavamo estasiati nelle sorprendenti evoluzioni che eseguivano, prima di toccare terra dopo un paio di minuti, se il vento era favorevole.
Ancora oggi, se per caso capita qualche bimbo nei nostri uffici, figli di clienti, riesco a farli restare a bocca aperta, costruendo loro un perfetto esemplare volante in meno di un minuto. E naturalmente svelo il tocco finale, segretissimo: alitare delicatamente sulla punta prima di lanciarlo in aria!

Quando a Santa Lucia mi arrivò “Il Piccolo Mago
, una grande scatola coloratissima piena di giochi di prestigio semplici ma di sicuro effetto, insieme con Fabio pensammo di mettere in piedi uno spettacolino.
Io avrei fatto il mago, e lui l’impresario, mettendoci il garage, un tavolino da picnic e alcuni seggiolini. Preparammo diversi fogli che fissammo all’ingresso del nostro condominio e di quelli adiacenti:

“Questa sera grande spettacolo di magia. Ingresso lire 10”. 


Quando i miei lo seppero, mio padre manifestò a mia madre qualche perplessità, però mamma gli disse:
Dai, Bruno, hanno dieci anni… lasciali fare!”.
Dovete sapere che la mia mamma quasi mai andava a fare spese con suo marito, perché lei, con una paga sola e cinque figli (io ero il più piccolo), era abituata a chiedere sconti a tutti i negozianti fino allo sfinimento, perché a quel tempo era possibile, mentre mio padre elargiva mance senza pensarci due volte, da gran signore qual è sempre stato, caro papà…

Lo spettacolo fu un successone, e l’incasso superò i duecento lire, che alla fine dividemmo con Fabio esattamente al cinquanta per cento, dopo aver smontato il tavolino da pic-nic e ripiegato le sedie, con il garage che poteva finalmente tornare al suo utilizzo ordinario.

Suo papà faceva il sarto
e aveva un negozio in paese.
Un bel giorno il mio amico ci comunicò che in occasione del torneo di calcio organizzato per noi ragazzini nel campo piccolo dell’oratorio, suo padre avrebbe fornito la “divisa”.

La notizia era sensazionale! Erano delle fantastiche magliette azzurre, con incisa sul petto la scritta bianca “CNE” che stava a significare “Confezioni” e le iniziali di cognome e nome del papà di Fabio, e per noi, ragazzini di dieci anni, si avverava un sogno: per la prima volta indossavamo una “divisa” e rappresentavamo una vera squadra.

Ci sembrava di essere il Real Madrid! Una delle immagini che ricordo con maggiore emozione, e un filo d’invidia, è quella di Fabio con la fascia di capitano al braccio, mentre la squadra fa il suo ingresso in campo per il calcio d’inizio.

Emozioni che comunque ho assaporato più tardi
, qualche anno dopo, quando indossai la maglia color arancione del “CSI”, con la quale vincemmo il campionato regionale; nella foto ricordo, scattata l’anno successivo giocando ogni partita con lo scudetto giallo “Campioni regionali” cucito sulla maglia, lasciandovi immaginare con quale compiacimento, in cui comunque vincemmo il titolo provinciale e perdemmo soltanto la finalissima regionale, tengo in mano il trofeo e indosso la fascia di capitano, con infinito orgoglio.

Anche in seguito mi capiterà di portarla al braccio, nell’under 21 della mitica Falck, quando l’arancione sarà sostituito dal verde smeraldo, colore dei “falchetti”.
E anche mio figlio Paolo avrà questa grande soddisfazione, non solo a livello giovanile, ma durante una partita di Coppa Italia disputata dal Castiglione delle Stiviere di Eccellenza in cui militava da tre anni (squadra in cui fu trasferito dopo aver vinto il campionato che avrebbe portato il Salò per la prima volta in serie D) e, pur essendo giovane ma con il maggior numero di gare disputate con la squadra mantovana, gli fu assegnata la fascia di capitano.

Ero in tribuna, e quando vidi Paolo fare l’ingresso in campo davanti a tutti i suoi compagni, con il gagliardetto in mano da consegnare agli avversari, il numero dieci sulle spalle e la fascia al braccio, lo confesso, mi commossi.

Ora che ci si avvicina ai titoli di chiusura, almeno per quanto riguarda la vita lavorativa, mi chiedo se le scelte che ho fatto (o tollerato, subito, sopportato, piuttosto che agevolato, favorito, facilitato, chissà…) siano state quelle giuste.
E se da bambino mi fossi innamorato della professione di mago? Magari sarei un collega di Silvan!

E se avessi accettato l’offerta di Trento e Mantova
, che allora militavano in serie C e volevano acquistarmi dalla Falck, forse sarei potuto diventare un gran calciatore professionista (“gran”, non esageriamo, però Lorenzo Insigne e Marco Verratti sono quattro dita più bassi di me, ah,ah,ah!).

E se invece avessi dato retta ai miei amici
che, stupiti, mi consigliavano di iscrivermi al conservatorio per studiare canto, quella volta che durante una gita in montagna, improvvisamente e inaspettatamente, salii su una roccia e mi misi a cantare a squarciagola “All’alba vincerò…vincerò… vinceeeeeeròòòòòò!” con insospettata maestria (exploit che mai più avrei ripetuto in seguito, fino a qualche anno fa), sarei forse in giro per il mondo a cantare nei teatri più importanti e rinomati.

Devo rivelare che in quel periodo, quando avevo diciassette anni, il novantotto per cento dei miei interessi era rivolto al calcio, ma un altro novantanove per cento era occupato da Grazia perchè proprio allora cominciò la nostra avventura, e solo il restante tre per cento riservato allo studio (forse correrò il rischio di apparire un po’ presuntuoso, ma a me è sempre sembrato di andare al duecento per cento), che comunque è stato più che sufficiente per un buon percorso scolastico.

La realtà è che oggi, e lo ammetto, con grande appagamento personale perché il lavoro che svolgo mi piace molto, mi ritrovo qui a “litigare” tra mille problemi, incombenze e continue novità che si incontrano ogni giorno per occuparsi nel migliore dei modi del settore amministrativo di un’azienda… ma sono soddisfatto di ciò che siamo, con Grazia, perché è indubbio che ogni scelta diversa sarebbe andata a discapito della famiglia; insomma, se avessi fatto il mago, il calciatore, o il cantante, sono certo che non avrei potuto intraprendere il viaggio con la mia sposa, e forse neppure sarebbero arrivati i nostri meravigliosi figli.

Due settimane fa abbiamo partecipato al funerale della mamma di una nostra amica e sui banchi della chiesa c’era l’immaginetta di Papa Paolo VI, appena canonizzato. Sotto il suo viso mite, una scritta, tratta dal suo “Pensiero alla morte”:

“Mi piacerebbe, terminando, di essere nella luce”.
Che folgorazione! La tentazione è di “perdersi” in questa beatitudine.

Ma il cammino è ancora lungo, e “stare nella luce”, con i propri cari e i propri affetti, spero ci sarà concesso dopo esserci adoperati per rendere migliori innanzitutto noi stessi, poi il prossimo, e infine il mondo in cui viviamo.

Ezio Gamberini


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