Storia semi-seria del pelo inquietante
di Leretico

Un’attitudine sempre più diffusa nella società moderna, soprattutto tra i più giovani, è la lotta senza quartiere contro il pelo


Il povero pelo, così umano, di origine antica, non è più gradito al suo posto: va strappato, annichilito, ne va cancellato il ricordo.
l liscio è bello, l’irsuto è brutto: incute timore, ribrezzo, evoca la maleodoranza, il disordine, l’armonia destrutturata, la bellezza imbrattata. Insomma, il pelo è un’offesa.

Alla sfortunata caduta del pelo si contrappone la fortunata stagione delle estetiste (o degli estetisti), che contano ormai tra i migliori clienti i maschi più che le femmine, gli uomini più che le donne.
Questi si affollano in centri, una volta dedicati esclusivamente alla bellezza femminile, alla ricerca di un nuovo io, di una nuova personalità che sembri migliore.

Immagino l’intrigo psicologico da cui fuggono e immagino, senza alcuna invidia, il dolore a cui si sottopongono, tra cerette longitudinali massive, deforestazione del petto, eradicazione degli atavici peli pubici.
Qualcuno aspira al neoclassicismo canoviano fine Settecento, oppure ad un ritorno alla grecità simile a quello voluto dagli umanisti del Quattrocento.
Qualcuno suggerisce che Michelangelo nel Cinquecento, nel Giudizio Universale, dipinse l’uomo adamiticamente glabro, mentre Dio, un barbuto un po’ più moderato, gli instillava la vita e l’anima. Se però guardate bene quell’uomo così dipinto, non lo troverete così “uomo”.
Eppure, proprio quell’uomo “non-uomo”, è emerso nel secondo millennio, tra un profumo un po’ troppo invadente e una strizzatina d’occhio che ammicca alla trasgressione.

Ogni volta che si vuole ardentemente una cosa, si trovano mille ragioni per volerla possedere.
Non è strano dunque vedere questi uomini in fila per diventare “più belli”. Ma “più belli” per chi?
Ovviamente per le loro dolci metà concrete o potenziali, che ultimamente non sono più così dolci, a giudicare da cosa pretendono dai loro uomini, o meglio dai loro maschi.

Sul fenomeno della lotta senza quartiere all’infingardo miserando pelo, proverei ad azzardare un’interpretazione aggiungendo a tale stravagante attitudine quella imperante del tatuaggio, che come una peste, ha infettato le nuove generazioni, e anche le meno nuove.

Code di draghi che spuntano dai colletti delle camicie, ragnatele che, partendo dal pomo d’Adamo, a raggiera imbrattano i colli e clavicole, geometrie euclidee variopinte che si allungano sulle braccia, tigri sul pube, angeli sui deltoidi, e poi teschi sugli ilei, Diane silvestri sui seni, diavoli per i più aggressivi, ricami grecali per i più temperati. Ce n’è per tutti. E per tutti i gusti.

Tatuaggi a imbratto e sterminio del pelo sono complementari, non c’è l’uno senza l’altro, sono due facce della stessa medaglia: è la sottile e inesorabile decadenza dell’uomo, della figura maschile, nel suo significato culturale più profondo.
Qualcuno potrebbe reagire considerando questa mia, la solita pessimistica presa di posizione di chi non accetta il mondo che cambia.
Ma questa obiezione non potrebbe cogliere nel segno, essendo vero il contrario.

È molto evidente ormai quanti “uomini-bambini” produce la nostra società.
Uomini che crescendo dovrebbero assumersi responsabilità sociali di cui invece non sono più in grado di reggere il peso, peso da cui si sentono schiacciati, oberati, compressi e da cui scappano.
Oppure uomini che sanno solo rispondere con violenza fisica alla propria inadeguatezza a reggere il confronto con una donna capace ormai di mettersi i pantaloni e guadagnarsi uno stipendio da sola.

Se negli anni della ribellione sessantottina
il capello lungo e il pelo erano arma politica, erano simbolo di antagonismo contro la società patriarcale allora dominante, capace di produrre ricchezza ma anche di comprimere la libertà, oggi all’opposto si anela all’assenza di pelo, si cerca di stanarlo e di ucciderlo perché segno di inferiorità manifesta.

Il maschio, che non sceglie più ma viene scelto, drammaticamente si prepara, tra una ceretta alle sopracciglia e un laser eradicatore alle ascelle, alla danza del pavone, o a quella meno nobile del piccione nella stagione degli amori.
L’uomo, che per ragioni insondabili non è più capace di essere uomo, si è lentamente adeguato alle pratiche femminili della bellezza. Si è consegnato, imbelle, al regno del profumo e della languida morbidezza delle forme.

Addio virilità agreste, addio sudore, addio naturalità. Meglio l’olio profumato, i pettorali abbronzati, il polpaccio glabro e colorato, possibilmente con sopra disegnato un Haiku giapponese che lo percorre da sud a nord e che invita al definitivo sacro rituale per cui tutta la messa in scena è stata pensata.

Mi chiedo perché questa inaudita intolleranza contro il “vil pelo” non valga per le guance.
Ultimamente il viso dell’uomo è stato addobbato dalle barbe più amene: da quelle islameggianti a quelle sumeriche con tanto di treccioline; da quelle geometriche a quelle druidiche. Al solo pensare quanto lavoro è necessario per combinarsi in quel modo, vengono i brividi.

Nella débâcle del maschio indigeno,
pur di apparire “belli” ci si è giocati l’anima.
Pur di mettere una foto suadente sul nostro social preferito ci siamo dimenticati chi siamo. L’assenza di pelo evoca il nulla; il tatuaggio che copre la pelle desertificata, richiama la relazione perduta con il sacro, quella di chi cerca di riprodurre sulla superficie ciò che irrimediabilmente manca nel profondo.

È l’annuncio della sconfitta, della fuga. Quello che vediamo nello specchio non ci piace, è necessario metterlo a posto, correggerlo, adeguarlo alla moda morale incombente. È necessario che la modifica sia definitiva, perché siamo corpo e nel corpo c’è la nostra redenzione.

Tuttavia, c’è un prezzo da pagare, perché in verità non siamo solo corpo: ad ogni pelo che strappiamo perdiamo con lui anche un pezzo di anima.

Leretico

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