Scusate, mi sono pensato addosso
di Leretico

A tutti sarà capitato quel terribile momento in cui la propria pancia diventa ingovernabile. Un colpo di freddo, un’intolleranza alimentare, determinano un’improvvisa incontinenza e spesso proprio nel momento meno indicato...


... In quei momenti si scopre la profonda verità insita nella legge di Murphy (se qualcosa può andare male, andrà male), a cui ci si meraviglia non sia stato ancora elevato monumento imperituro, in un paese dove ormai anche i cani ne hanno uno.
E si sta parlando di un bisogno fisiologico che non ammette dilazione, si impadronisce totalmente del corpo e dello spirito, rende urgente ciò che normalmente può essere governato più strategicamente.

Non affronterei questo argomento con codesta leggerezza
se non ci fosse un’urgenza altrettanto impellente che mi spinge.
È che i tempi si stanno così preparando al temporale (speriamo di sola acqua) che mi è venuta immediata la comparazione del bisogno di pensare, così importante ora come non mai, con il livello a cui tale bisogno è stato invece tristemente destinato, nell’era della semplificazione assoluta, la più politicamente premiante.

Mi scuso quindi da subito, hic et nunc, con i post-moderni benpensanti, quelli che odiano le élite, quelli che il nuovo è meglio del vecchio a prescindere, quelli dei congiuntivi un tanto al chilo basta abbondare, quelli che nascono dal fallimento altrui e vanno al potere solo perché l’onda li ha trovati voltati di schiena, su cui hanno potuto galleggiare senza sforzo portati dalla corrente populista, là dove mai sarebbero arrivati mettendoci la faccia.

Mi scuso di quanto leggeranno, anche se ciò che scrivo su questo foglio virtuale subirà per mano loro la stessa destinazione poco eroica della carta igienica.
Avverto che sono comunque preparato: visto che la maggior parte dei buoni pensieri finisce oggi nello stesso luogo di scarto, di deiezione, mi accorgo che quanto vado dicendo è in buona compagnia ed è l’unica cosa che non mi fa disperare.

Mi sento anch’io come quei disadattati, e un po’ emarginati, che, ragazzini delle scuole elementari, timidi e introversi, dopo lunga resistenza per non chiedere il permesso di uscire, e quindi di esporsi, non essendo riusciti ad arrivare in tempo nel luogo funzionale migliore dove recuperare la pace intestinale e quindi mentale, devono confessare alla maestra al rientro in classe, non senza grande imbarazzo e abbassando gli occhi: “Scusi maestra, mi sono pensato addosso!”

Questo insulso accrocchio di parole che vado qui dispiegando alla meglio, mi è venuto leggendo un pezzo di Brancati del 1946 dal titolo “I fascisti invecchiano”.
Ogni riferimento alla situazione odierna è puramente “non casuale”, anche se il nostro credere assoluto nel divenire ci costringe a pensare, ahinoi, che la storia non possa ripetersi, ci costringe ad affermare che non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua di un fiume (acqua speriamo non inquinata, s’intende).

Ho conosciuto Brancati leggendoDon Giovanni in Sicilia” (1941), tuttavia me lo sono ritrovato più volte, nel mio percorso di girovago culturale, in veste di giornalista durante gli anni del fascismo imperante, presso la redazione del Tevere e del Quadrivio di Telesio Interlandi.
Testate giornalistiche, il Tevere e il Quadrivio, fascistissime, che mal si comparavano con l’idea che mi ero fatto di Brancati dalle pagine della sua letteratura, dall’uso tragicomico dell’ironia.

Venendo al pezzo I fascisti invecchiano”, scritto nel primo dopoguerra, ricordando che il rifiuto di Brancati del fascismo avvenne in tempi non sospetti e precedenti il 25 luglio 1943, mi preme qui sottolineare la parte dell’articolo in cui egli riporta i motivi per cui, giovanissimo, aderì al fascismo.

Scrive Brancati:
“Sui vent’anni, io ero fascista sino alla radice dei capelli. […] mi vergognavo sinceramente di ogni qualità alta e nobile e aspiravo ad abbassarmi e invilirmi con lo stesso candore, avidità, veemenza con cui si sogna il contrario. Forse a causa della mia gracilità (e un poco alle letture: Ibsen, Anatole France, Pirandello, Bergson, Gentile, Leopardi frainteso…) io guardavo con stupita ammirazione, come a statue di Fidia, a quelli fra i coetanei che erano più robusti e più idioti, e avrei dato due terzi di cervello per un bicipite ben rilevato.

Davo al Pensiero (studio, meditazione, esame di coscienza, disamore per il pratico e l’utile) la colpa della mia magrezza, e lo ripagavo con una fortissima antipatia. Una parola mi abbagliava e riscaldava come un sole: ‘istinto’, e dietro le veniva, più filosofica ma meno luminosa, l’altra parola di moda: ‘intuizione’. […] Provavo per Croce l’acuto fastidio che il dormiglione e poltrone prova per colui che lo scuote e sbatte per i capelli: sentivo in Croce l’unico serio pericolo, esistente a quei tempi, per i miei velenosi e ormai piacevoli sogni. […]

Il fascismo lo reputai una religione; e in verità non potevo trovare un culto più macchinoso e fervido della bassezza e un odio più sincero e meglio armato per le cose alte e nobili. L’Italia fascista la reputai un tempio: nessuna società infatti aveva mai dichiarato, con tanto concorso di popolo, grandiosità e strepito, dalle sue piazze, dalla sua radio, dai suoi giornali, dalle sue Camere, dalla sua scuola, guerra al Pensiero.

Quel ‘credere’, non si sa bene a che cosa, mentre non era moralità per il fatto che non era a Gesù Cristo né al Bene e dunque non imponeva alcuna altra rinunzia, era un gradevolissimo e sicuro antidoto del pensiero.
Quel ‘credere’ si risolveva nel categorico invito a ‘non pensare’”.


In questo testo mi colpisce non solo il fatto che Brancati scriva Pensiero con lettera maiuscola, come pure fa con la parola Bene, ma anche il collegamento del successo popolare del fascismo con la violenta negazione del pensare, in nome di alcune parole d’ordine che anche oggi sento ripetere con tragica inconsapevolezza: intuizione, istinto.
L’abolizione del pensare dichiarato in nome dell’idiozia manifesta, supposta concreto strumento di cambiamento del mondo. Anche allora, come oggi, si fa dell’idiozia un valore, e come tale lo si fa arrivare al potere.

Brancati ci fa sapere ciò che lo ha salvato rispetto a ciò in cui aveva religiosamente creduto durante la gioventù: proprio l’odio per quella cultura che oggi diremmo classica, proprio l’odio per quel Benedetto Croce, che aveva osato lanciare e sottoscrive il Manifesto degli intellettuali antifascisti il 1° maggio 1925, proprio quelle letture, quelle personalità della cultura gli iniettarono l’antidoto della consapevolezza e della ribellione contro il regime dittatoriale di Mussolini.
E diciamo anche contro chi crede che il pensiero sia da abolire, sia scomodo, sia flatulenza (per rimanere in tema).

Così, quando ci troviamo con gli amici a parlare di potere e di politica, quando sul tavolo arrivano argomenti come l’ignoranza della prassi costituzionale in tema di nomina dei Ministri da parte del Presidente della Repubblica, quando il Primo Ministro si lascia sfuggire ai microfoni supposti spenti la domanda: “Luigi, ma questo lo posso dire?” rivolta a Di Maio vice Primo Ministro, il mio pensiero (ebbene sì credo di pensare, quale arroganza!) comincia a formare in me una rappresentazione di collodiana memoria: alla fine, tra i frizzi, i lazzi e i cotillon della vittoria elettorale giallo-verde, festeggiata nel Paese dei Balocchi, ci siamo trovati di fronte all’”onagrocrazia” più arrabbiata di mai, schierata a battaglia.

Tutti mi dicono di non disturbare con le mie invadenti affermazioni i manovratori al comando, di non illudermi con la mia circoscritta importanza, più supposta che reale, di poter far passare il mio messaggio.
Ma io rispondo con orgoglio, e anch’io in tempi non sospetti, che se Brancati, con intelligenza e sensibilità ha potuto capire, anche per me, nonostante mi sia malamente “pensato addosso”, c’è una concreta speranza.

Leretico

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