Ricordati di me
di John Comini

Il 25 aprile noi bambini eravamo contenti perché si stava a casa da scuola. Io leggevo sui muri i manifesti, con tanto di tricolore


C’era la parola “ammassamento”, c’era il nome degli oratori e alla fine c’era la scritta “partecipate numerosi”.
Io guardavo la sfilata, preceduta dalla banda, con le autorità e le bandiere, e pensavo a quando seduto a tavola ascoltavo l’incredibile racconto sui partigiani di Salò.

A casa mia mangiavamo in 10. A capotavola il nonno Angelo, alla sua sinistra la nonna Margherita e alla destra il mio papà. Poi c’erano i miei 2 fratelli e le mie due sorelle. Mia mamma stava in piedi a servire tutti: preferiva mangiare dopo, da sola, in disparte.

A centrotavola c’era la zia Giulia, che ci spiegava il galateo: “Mai mangiare con la bocca piena, stai su bel dritto, non appoggiare i gomiti sul tavolo…
Con il tempo, ho scoperto che mia zia Giulia, durante la guerra, portava lettere e documenti a mio zio Vittorio, nascosto dalle parti di Tenno.
Andava da lui in bicicletta e poi saliva sul battello direzione Riva, e con grande sprezzo del pericolo superava i controlli dei posti di blocco. Mia zia raccontò questa cosa solo a guerra finita, perché temeva che qualcuno, anche ingenuamente, avrebbe potuto dirlo in giro.

A pranzo spesso avevamo ospiti, come la leggendaria signorina Gisella da Salò, alla quale veniva dato il posto d’onore a capotavola e noi si stringevamo un po’ di più. Ci raccontava le storie vere della guerra, dei partigiani. Noi tutti in silenzio ascoltavamo, mentre lei parlava con un italiano impeccabile, persino mia mamma si fermava accomodandosi su una sedia.

Raccontava di “Pippo”, l’aeroplano che di notte mitragliava ogni casa che avesse le luci accese.
Raccontava degli aerei alleati che passavano alti nel cielo per andare a bombardare chissà dove.
Raccontava di quella sera del 22 marzo 1945, quando monsignor Luigi Ferretti, allora parroco di Salò, si recò all’ospedale a far visita al partigiano Renato Mombelli, che era stato catturato dai fascisti e medicato in ospedale per poter essere successivamente interrogato.
Mentre la guardia si era allontanata, monsignor Ferretti lo avvertì che la notte sarebbero venuti i suoi compagni a liberarlo.

E adesso passo la parola ad Angio Zane da Salò, che aveva combattuto nella Brigata Perlasca che diverrà famoso per i Caroselli televisivi (come quello “Le stelle sono tante milioni di milioni ma la stella di Negroni vuol dire qualità”!) 
Nel suo straordinario libro “Guerrigliero” racconta la tragica vicenda salodiana.
 
Partimmo dalla cascina del Rosso di Roè Volciano in 5: io, Niko, Dino, l’Alpino e Ferro (nome di battaglia di Ippolito Boschi).
Tutto era stato previsto perché il colpo fosse incruento.
Ferro indossò un camice da infermiere per affrontare il primo corpo di guardia, che si trovava a pianterreno, composto da due militi.
Riuscì a disarmare subito il primo, ma l’altro reagì immediatamente sparando. Ferro venne colpito all’inguine. Io, che mi trovavo sulla porta, risposi subito al fuoco: entrambi i militi furono colpiti.
L’Alpino strappò i fili del telefono isolando così l’ospedale. Le due guardie, davanti alla porta di Renato, sentendo gli spari entrarono nella stanza.

Salimmo le scale dopo esserci tolte le scarpe per non farci sentire e Ferro venne con noi perché non voleva mollare assolutamente. Ci mettemmo ai lati della porta.
Stando quasi completamente a terra, con la canna del mitra aprii la porta: da dentro risposero sparando alto. Dino, che era rimasto indietro ma non fuori tiro, fu colpito da due pallottole: una prese la canna del mitra, l’altra lo colpì al ventre.

Mi trovai in mezzo alla sparatoria, poi vidi una guardia afflosciarsi  scivolare sotto il letto  e l’altra cadere e Diego venire avanti: aveva due occhi che sembravano due stelle tanto erano luminosi, mi abbracciò, mi tirò fuori dal letto dicendo:- Siamo noi, siamo venuti a salvarti.
Uscimmo dall’ospedale. Ferro era portato a spalle dall’Alpino, Niko e Diego reggevano me e Dino. Infilammo via Teatro ed entrammo in casa Ebranati dove le donne attendevano un solo ferito e se ne trovarono tre da curare.

Ferro venne adagiato sul divano. Poco dopo Diego venne a prendermi dicendo che Ferro stava morendo e voleva vedermi. Mi portò vicino a lui. Recitammo insieme l’Ave Maria, poi disse: - Guardate che io non volevo uccidere nessuno.

In casa c’era una grande agitazione. Io e Dino fummo portati in una specie di solaio la cui porta di accesso era nascosta da un armadio.
La signora Baldi, poco dopo, mi disse che Ferro era spirato. La salma di Ferro fu messa in una cassapanca e murata in un sottoscala dal capomastro Enrico Bonetti che ebbe cura di mettere delle ragnatele sul muro fresco per mascherarlo. Alcune donne pulirono le gocce di sangue per strada. I fascisti reagirono immediatamente con continue perquisizioni, controlli, perlustrazioni, posti di blocco e arresti.

Il 25 marzo Francesco Zane, il figlio Giuseppe, la sorella Maria e Renato Pasinelli furono rinchiusi nelle carceri di Maderno. Il 4 aprile furono fermate la madre di Carlo Mombelli e la sorella Ida. Nessuno dei partigiani venne catturato.

E mi sei sempre vicino, tu, Ferro, come prima. Con lo spirito ancor più cresciuto in questi mesi, generoso e idealista.
Ora vivi dentro noi (come Emi Rinaldini) che non sappiamo, non possiamo dimenticare. Il tuo sacrificio non è stato vano: tu, ora, sei luce nella grande luce.”


Ascolto la canzone di Fiorella Mannoia, “Combattente”

“Forse è vero, mi sono un po’ addolcita
la vita mi ha smussato gli angoli
mi ha tolto qualche asperità
Il tempo ha cucito qualche ferita
e forse tolto anche i miei muscoli un po’ di elasticità
Ma non sottovalutare la mia voglia di lottare
perché è rimasta uguale
non sottovalutare di me niente
sono comunque sempre una combattente
E' una regola che vale in tutto l'universo
chi non lotta per qualcosa ha già comunque perso
e anche se la paura fa tremare
non ho mai smesso di lottare
Per tutto quello che è giusto
per ogni cosa che ho desiderato
per chi mi ha chiesto aiuto…
so che in fondo ritorna tutto quel che dai”


In questi giorni l’amico Pierangelo Damiani
mi ha fatto leggere un libro bellissimo, “Sui monti ventosi”, scritto da Aldo Giacomini, il partigiano delle Fiamme Verdi, iniziatore e promotore del recupero dei sentieri della Resistenza bresciana.

Mentre lo leggevo, mi sono commosso al pensiero di quei ragazzi che hanno combattuto per la nostra, la mia libertà.
Ragazzi coraggiosi, perché ci voleva molto coraggio a non rispondere ai bandi di arruolamento, a nascondersi nelle città e sulle montagne, consapevoli che essere scoperti significava andare incontro alla tortura e alla morte.

Ragazzi che hanno subito sofferenze inenarrabili, torture allucinanti. Ragazzi catturati e buttati da una scarpata del fiume, gettati nella cascina in fiamme o impiccati. Dove trovano il coraggio di ribellarsi? Dove trovano la forza di tacere sotto le torture? Certamente pensavano di fare la cosa giusta, che il loro sacrificio non sarebbe stato vano.
Credevano in un’Italia migliore.

Ragazzi morti per questa povera Patria. Quanti di noi oggi si sacrificherebbero per la Patria? Certo, dopo il 25 aprile sembrava che gli italiani non fossero mai stati fascisti: in mezzo alla baldoria già si aggiravano gli opportunisti, i voltagabbana,  gli “spartigiani”, pronti a saltare sul carro dei vincitori…

Angio Zane scriveva, dopo la Liberazione:
“Disgusto è dire poco e niente.
Consegnati gli ultimi prigionieri tedeschi agli alleati, ecco l’esercito di “quelli del dopo” presente al gran completo, uscito nelle strade a proclamarsi vincitore.
Ci sono tutti: dai voltagabbana che si sono strappati le mostrine della RSI agli opportunisti del “forse” e dei “ma”, dai borsari neri agli spudorati, dai leccapiedi di tutte le risme a braccetto con i “fazzolettari della libertà”, la mano chiusa a pugno, quella mano che il giorno avanti era drizzata stesa...”


Lo so che senza gli alleati non ci saremmo mai liberati dal nazifascismo. Lo so che da certe parti ci furono vendette e crimini compiuti a Liberazione avvenuta. Eppure oggi, almeno oggi, per qualche istante, guarderò il cielo, per ricordare quei ragazzi che si sono sacrificati per la nostra pur disprezzata libertà.
Loro ci chiedono di non essere dimenticati, di continuare a credere nei valori per cui hanno vissuto e sofferto.

Molte persone hanno raccolto la loro eredità.
Quelli che lottano contro la corruzione, e magari hanno il coraggio di rischiare il posto per denunciare soprusi e illegalità.
Quelli che mettono la forza del pensiero al centro della vita, anche pensiero critico sul mondo che ci circonda.
Quelli che vanno controcorrente e si impegnano a vivere una vita dignitosa anche nelle piccole cose, magari non buttando i rifiuti sulle strade.
Quelli che sono degni della divisa che portano e si impegnano a combattere la criminalità, rischiando la propria vita (come dimenticare il martirio di Arnaud, il gendarme francese che si è offerto in ostaggio al posto di una donna ed è stato ucciso da un terrorista “jihadista”?).

Quelli che si rifiutano di scrivere online insulti e volgarità.
Quelli che cercano la coerenza e che nonostante tutto rispettano le opinioni diverse
Quelli che provano ancora un pizzico di vergogna per la corruzione dilagante, per il massacro quotidiano delle donne, per una cultura fatta di superficialità, per la Costituzione divenuta lettera morta.

Quelli che ogni giorno, tra paura e menefreghismo, combattono la mafia.
Quelli come il signor Enrico Angelini, 90 anni.

Leggete questo commovente scritto di Gramellini. Si intitola “Questo è un uomo”.

“La cascina Raticosa è un rifugio sui monti sopra Foligno che durante la Resistenza ospitò il comando della quinta brigata Garibaldi.
Nei giorni scorsi qualche nostalgico dello sbattimento di tacchi ha rubato la targa commemorativa e disegnato una svastica enorme sul muro. Forse non sapeva che nei pressi della cascina, in una notte di febbraio del 1944, ventiquattro partigiani appena usciti dall’adolescenza erano stati catturati dai nazisti, caricati su vagoni piombati e mandati a morire nei campi di concentramento del Centro Europa.
O forse lo sapeva benissimo e la cosa gli avrà procurato ancora più gusto.

Però non poteva immaginare che tra quegli adolescenti ce ne fosse uno scampato alla retata.
Sopravvissuto fino a oggi per leggere sulle cronache locali il racconto dell’oltraggio.

Mentre tutto intorno le Autorità deprecavano e si indignavano a mani conserte, il signor Enrico Angelini non ha pronunciato una parola. Ha preso lo sverniciatore, il raschietto, le sue ossa acciaccate di novantenne ed è tornato al rifugio della giovinezza per rimettere le cose a posto.
Con lo sverniciatore e il raschietto ha cancellato il simbolo nazista. E dove prima c’era la targa ha appoggiato una rosa.”


Guardo il cielo azzurro, ascolto le voci dei ribelli per amore.
Come la voce di Teresio Olivelli “Non posso lasciarli soli, vado con loro”. Scelse di finire nel campo di concentramento di Hersbruck per non abbandonare i compagni di sventura. Muore in un lager nazista a soli 29 anni.

“Il carcere è pieno di Dio.”
Dopo don Gnocchi, gli alpini possono annoverare tra le loro fila un altro beato.

Voci fioche, quasi sussurrate, voci nel vento...
Voci dolci e fredde nella neve, voci umide di pioggia, voci di paura e voci soffocate nel pianto...
Voci randagie che salgono sui monti, che vanno di balza in balza...
Voci e rantoli di disperazione nel buio di malvagie prigioni...
Voci di attesa, di speranza, voci magre di pasti saltati e di barba lunga...
Voci di donne che aiutano, voci di donne che abbracciano, voci che sorridono…
Voci lente e sapienti di vecchie che dicono il rosario, che aspettano il figlio lontano...
Voci gracchianti di radio nascoste, voci di giornali clandestini, di muri screpolati, di lettere scritte a matita…
Voci amiche e voci nemiche, voci di una guerra che è sempre una brutta storia…
Voci di uomini e di donne che hanno scelto da che parte stare, voci di gente che ora non è più, voci di vento…
Voci lontane, voci dimenticate, voci travisate, voci che qualcuno vorrebbe cancellare...
Voci di una valle, dei suoi monti ventosi…


Ricordati di me, ci dicono. No, ragazzi e ragazze, non possiamo dimenticarvi.

Maestro John Comini

“Nonno, mi dici sempre che dobbiamo imparare dai morti. Ma che cosa dobbiamo imparare da loro?”
E il vecchio partigiano rispose: “Le ragioni per cui sono morti”.

Nelle foto: Teresio Olivelli, Emiliano Rinaldini, Giacomo Perlasca,
Ippolito Boschi detto Ferro
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