Caso Facebook: ma chi ha davvero colpa?
di Roberto Berardi

Autorizzazioni non rispettate, leggerezza degli utenti, pochi controlli: cosa si nasconde veramente dietro lo scandalo più grande dalla nascita dei social network



Il caso Cambridge Analytica è l’ultimo tassello della nostra privacy su Internet.
Nei 50 milioni di utenti che sono stati utilizzati come cavie elettorali tramite la condivisione dei profili Facebook c’è tutta la fragilità di un sistema che ha ormai perso ogni controllo sul destino dei dati sensibili.

Ma la cosa peggiore è che non c’è un vero colpevole. O meglio, un colpevole unico.
Per come stanno le cose, si può dire che un caso come quello appena scoperchiato sia il risultato finale delle azioni di tre attori concorrenti, tutti più o meno responsabili.

Ci sono le mosse azzardate di Cambridge Analytica
, in primis, che ha “preso” i dati degli utenti acquisiti da un'altra società che aveva sviluppato un quiz su Facebook per poi sfruttarli per tutt'altre finalità (la propaganda elettorale di Donald Trump).

C'è poi la responsabilità di Facebook, colpevole non tanto per aver ceduto le informazioni dei suoi iscritti a una società di terze parti - dal momento che aveva ottenuto l’autorizzazione dagli utenti - quanto piuttosto per non aver denunciato il fatto una volta accortasi della violazione operata da Cambridge Analytica.

C'è infine la leggerezza degli utenti, troppo superficiali nel concedere le proprie informazioni personali, il combustibile senza il quale non staremmo qui a parlare di un terremoto di questa portata.

Le responsabilità di Cambridge Analytica sono evidenti: la società britannica ha elaborato un sistema di profilazione psicologica dell’utente basato sulla correlazione tra risposte a un questionario psicologico e i like che lo stesso appone sulle pagine Facebook.
Questa attività, sulla carta legittima (non c’è una legge che impedisce questo tipo di acquisizione dati), è diventata violazione delle condizioni di servizio di Facebook nel momento in cui dati sono stati ceduti a una società con altre finalità.

Le colpe di Facebook sono semmai altre.
Da un lato c’è lo scarso controllo operato sui dati dei suoi utenti; dall’altro l’omertà su quanto accaduto.

Mark Zuckerberg sapeva sin dal 2015 che i dati di 50 milioni di utenti erano passati da uno sviluppatore a una società terza, Cambridge Analytica  e per giunta con finalità completamente differenti da quelle originarie.
Avrebbe dovuto rendere pubblico l’accaduto, per tutelare sia gli utenti che gli azionisti.

Del resto, i 9 miliardi di dollari che la società ha perso in borsa dopo sole 48 ore dallo scoppio dello scandalo sono lì a dimostrare il legame a doppio filo fra la reputazione di un’azienda digitale e la fiducia dei suoi investitori.

In misura minore, anche gli utenti sono corresponsabili di quanto accaduto.
Applicazioni come quelle che hanno permesso a Cambridge Analytica di fare breccia nelle preferenze di milioni di profili non sono una novità per chi bazzica nel mondo social, anzi.

È un dato di fatto: per funzionare, la maggior parte delle app su Facebook richiede autorizzazioni più o meno profonde, delle quali, colpa nostra, nemmeno ci accorgiamo più.

Ci limitiamo a cliccare Accetta in modo compulsivo e ossessivo
. Nella convinzione superficiale, per non dire stupida, che qualsiasi intromissione nella nostra privacy sia comunque meno rilevante dei vari regali che ci piovono addosso dai vari fornitori di contenuti digitali.

Occhi aperti.

Roberto Berardi
B.R. Informatica
www.brinformatica.it
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