La condizione del fachiro e i cercatori di merda
di Leretico

E' utilissimo per concimare, lo sterco. Bisogna però vedere cosa si intende far crescere. Gustosissimo (si fa per dire) questo "Eppur di muove" del nostro Leretico



Qualche decennio fa, in tempo di calessi e di cavalli, uno strano personaggio si adoperava indefesso nel suo singolare mestiere.
Come accompagna lo sciacallo le carovane e il delfino le navi” così egli inseguiva i quadrupedi che sfrecciavano lungo le strade della regione Iblea e raccoglieva “le ciambelle che a intervalli regolari quelli sgravano sul terreno a guisa di fumanti pietre miliari”.
Si tratta del “venditore di letame”, meglio detto nella lingua di quella terra “‘u fumiraru”, descritto da Gesualdo Bufalino nel suo “Museo d’ombre” (1982).

Anche noi, che frequentiamo le vie mediatiche moderne, proprio qui, siamo costretti nostro malgrado a fare il mestiere del “fumiraru”, raccogliendo le impressioni che il mondo ci elargisce “a guisa di fumanti pietre miliari”.
Correndo a perdifiato lungo queste dolorose strade, si sentono rumori lontani, provenienti da una piazza affollata.

L’agorà, la piazza della politica, produce strepiti invece di parole, rumori gutturali impastati di rabbia più che dialoghi, tanto che anche il più illuso eremita è costretto nolente a tendere l’orecchio, nonostante la vita dedicata alla fuga dal mondo, proprio da quel mondo.

Il rumore è decisamente superiore alla media e non basta confidare nel fatto che il periodo elettorale sia solitamente foriero di mirabolanti esercizi verbali, promesse incommensurabili, deiezioni verbali multiple da incontinenza ideologica che scompariranno come neve al sole di marzo, giusto dopo la scadenza del voto. Stavolta la contrizione interiore non basta.

Al bailamme usuale si è aggiunta una sensazione nuova
, che emerge inconstatata dalle ultime vicende tragiche di Macerata: il destino, il garbuglio gaddiano, ha concentrato nella cittadina marchigiana una “depressione ciclonica” micidiale, che ha generato un torbido scompiglio difficilmente spiegabile con la singola causa apparente.

Una ragazza tossicodipendente, dopo qualche mese di residenza tormentata, ha lasciato la comunità di recupero in cui stava tentando di tornare a una vita normale: si è arresa.
Appena fuori ha cercato affannosamente la sostanza che tanto le era mancata durante il periodo di recupero: la sua terribile dominatrice. Sapeva quale fosse il modo più veloce di procurarsela ed è andata a bussare alla porta dell’inferno.

L’incontro con i nigeriani spacciatori di Macerata ha avuto purtroppo un epilogo imprevisto: Pamela è morta e il suo ingombrante cadavere è stato fatto a pezzi.
Il macabro ha invaso completamente la scena. Gli uomini della morte hanno rubato la vita di una ragazza avvenente, fragile indifesa, debole, innocente.
Questa rappresentazione è stata assorbita dall’immaginario popolare come l’acqua su un campo riarso, ben preparato nel tempo. I cuori hanno gridato vendetta.

Il fanatico, altro personaggio necessario in questa tragedia, ha preteso il suo ruolo: ecco comparire quindi Traini, a colpi di pistola e bandiera italica sulle spalle, novello giustiziere sterminatore.
Ha ottenuto il suo momento di gloria, ha colpito alcuni neri per strada, colpevolissimi ai suoi occhi solo perché neri, sostituti perfetti dei presunti responsabili della morte della ragazza.

Ora, quelli che si sentono Liberi e Uguali, gli epigoni della rivoluzione francese del 1789, forse i “figli dell’ottantanove” di sciasciana memoria (Il cavaliere e la morte – 1988), hanno colto la palla al balzo.
Non è sembrato lor vero di poter risuscitare il fascismo squadrista identificandolo in modo così perentorio, così conclamato, con il Traini. Un dono dal cielo insomma.

Come il diavolo non è nulla senza l’acqua santa, così hanno fatto tornare l’ombra dell’onda nera in torbace dall’avello della storia, nel periodo elettorale più adatto, più congeniale, più vantaggioso. È stato un segno del destino, appunto, e guai farselo scappare.
E allora via alle manifestazioni antifasciste, antileghiste, antiforzaitalia, antipatitodemocratico soprattutto, e forse anche antimovimentocinquestelle.

Un’orgia di “anti” pur di ritrovare l’essenza, il motivo per cui esistere, una ragione di fondamento.
I grandi vecchi nostalgici della sinistra hanno partecipato al rito, alla sacra manifestazione di sabato scorso, e come potevano mancare?
Ricercavano l’identità perduta, come l’arca sul monte Ararat, la cercavano come il sacro Graal, per contrasto, come fanno gli adolescenti nell’insicurezza dell’età. Non l’hanno trovata. Peccato.

È uno schema fisso, narratologicamente perfetto, quello di Macerata; generato da una realtà quasi letteraria, usata per raccontare una tragedia popolare in cui, di solito, il linciaggio, è l’esito finale.

A questo punto, poiché non vogliamo essere strappati al nostro sentire per essere ingoiati da questa falsa e manipolata rappresentazione, dovremmo seguire il suggerimento di Ennio Flaiano (Diario degli errori – 1976) e metterci “nella condizione dei fachiri”: seduti sul nostro tappeto di chiodi dobbiamo, nell’immobilità della meditazione, respingere il dolore.
Concentrati su ciò che potrebbe fatalmente ferirci, ma su cui fondiamo il nostro essere qui e ora, dobbiamo disegnare un’altra dimensione in cui inscrivere questi fatti.

La “lunga transizione” di cui alcuni storici parlano
per descrivere l’incapacità italica, dopo il delitto Moro, di abbandonare definitivamente le contrapposizioni mitiche e ideologicamente impostate tra comunismo e fascismo, l’incapacità di riconoscere come legittimo l’avversario politico, sembra non essere ancora terminata.

Quando l’incertezza per il futuro si fa
, per ragioni contingenti come i fatti di Macerata, più angosciante, ecco che quei miti sepolti vengono riesumati per rievocare uno scenario perduto che non vorremmo mai più rivivere ma che risulta l’unico che eternamente funziona negli italici meccanismi inconsci collettivi e, proprio per questo, nelle certezze che esso è in grado di generare come cornice di senso riconoscibile, pur nella tragica negatività della sua continua riproposizione.

Ma c’è di peggio: viene bloccato quel minimo esercizio di ragione che farebbe intravedere quanto labile e strumentale sia la connessione tra l’immigrazione e la morte di Pamela Mastropietro.
Se è infatti vero che i nigeriani presunti responsabili dell’omicidio sono degli immigrati, non è assolutamente vero che il loro atto criminale derivi dal fatto di essere degli immigrati.

Se si abdicasse alla ragione si permetterebbe quindi ai Traini di turno, e a tutti quelli che dal suo atto vogliono trarre un macabro vantaggio elettorale e politico, di far passare il messaggio che sia corretto condannare e punire l’immigrato perché immigrato, comunque colpevole perché presente dove non avrebbe dovuto, invece di punire l’omicida perché criminale.

Difficile scegliere la ragione, quando parla contro la superficiale attitudine di cedere alle più basse passioni.
Difficile scegliere la condizione del fachiro.

Leretico
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