Indignazioni (di plastica)
di Luca Rota

Indignazione è parola difficile, ma non desueta. Indignarsi è un dovere quando la situazione lo richiede. Un popolo che non sa farlo, finirà col diventare un manipolo di sudditi, e non più una società di cittadini


Disobbedire a leggi ingiuste, protestarvi contro, alla maniera di Thoreau, Brecht o Gandhi, è cosa buona e (soprattutto) giusta, nonché diritto inalienabile di ogni essere umano. Indignarsi, come suggerisce Héssel nell'interessantissimo pamphlet "Indignatevi!" (Add Editore, 2011), invece è cosa doverosa.

Entrambe le azioni presumono la presenza di un oppressore, di un'entità dispotica creante ingiustizie, alla quale ribellarsi, o contro la quale protestare.

La mancata concessione dello ius soli,
gli aumenti dell'età pensionabile, del costo della benzina e dell'energia (per giunta costanti), i soldi dati alle banche (quelli che, come per magia, si trovano sempre), le non dimissioni di funzionari "disonorevoli". Ecco vari esempi d'ingiustizie.

Le bustine di plastica a 2 centesimi le abbiamo sempre pagate, solo che prima non era specificato. Le cose sopracitate invece, sono trite e ritrite (e specificate più che bene). Indignazione è parola difficile, ma non desueta. Se imparassimo ad usarla col giusto metro però, non sarebbe cosa malvagia.


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