Il rito del «Canto della Stella»
di Giuseppe Biati

Un tempo, ma anche oggi in una rivisitata tradizione, in Valle Sabbia, la gente nella notte che precedeva l’Epifania vegliava fino a notte fonda, in attesa della “Stella”


Ero ancora bambino, ma l’attuale ricordo, quasi in dissolvenza, mi riporta vivide le immagini dei cantori, rigorosamente tutti maschi, con i grandi cappelli neri e i lunghi mantelli di felpa.

Canti itineranti e questue rituali portavano i giovani del paese, di quasi tutti i borghi valsabbini, a sostare con una rudimentale stella di cartapesta, internamente illuminata dalla ballerina luce di una candela, davanti alle abitazioni e via via lungo le strade.
Il canto, espresso con le varie laudi cantilenanti, giungeva ora lontano ora prossimo, a secondo del lento snodarsi della anomala processione.

La tradizione della Stella, canto esplicitamente epifanico
, ha lontane origini nel territorio montano valsabbino e probabilmente è di antiche derivazioni orientaleggianti.
La stella simboleggia il viaggio dei Re Magi.

Lo svolgimento del rituale avviene generalmente la sera dell’Epifania
, con i cantori che iniziano il loro giro che li porterà ad eseguire la cerimonia per tutto l’abitato, preferibilmente davanti ai gruppi di case o ai crocicchi delle strade.

Durante il giro viene effettuata una questua che frutta generi alimentari e denaro per la finale festa collettiva o per donare in beneficenza.
Poco si sa di certo riguardo alla natura e all’origine di questo repertorio poetico-spirituale, ma realistici possono essere gli accostamenti dei più comuni canti della Stella (diverse le varianti) ad alcune Laudi Spirituali medioevali e postmedioevali.

Altrettanto probabile può essere l’utilizzo di questo strumento popolare litanico – di facile memorizzazione e di sicura presa emotiva – dal periodo del Concilio di Trento allo scopo di arginare il grande favore popolare incontrato dalla Riforma in aree vicine all’arco alpino e principalmente influenzate dalla cultura nordica.

Questa campagna operata dalla Controriforma potè essere avviata massicciamente e velocemente grazie al meccanismo delle “Laudi a travestimento spirituale”, col quale poterono essere composte molte nuove Laudi di contenuto morale utilizzando la melodia profana, con poche modifiche strutturali, in modo tale da essere utilizzate dal popolo.

La grandissima diffusione di questo canto è facilmente da imputare alla sua circolazione popolare in libretti e fogli volanti, ma soprattutto alla tradizione orale degli anziani, che, oltretutto conoscendo anche le varianti dei cantori dei paesi vicini, tendevano rigorosamente a validare le loro come originali e assolutamente non spurie.

Si pensa, a buon titolo, che il Sei/Settecento fossero comunque i periodi di maggior penetrazione di questi canti nel tessuto sociale, raggiungendo l’apice, anche per il culmine raggiunto dal fervore di ricostruzione degli edifici sacri e di restaurazione religiosa, tipici di questi due secoli.

E’ da ritenere che le parole e le armonie attuali, a distanza di almeno due secoli, sia nel titolo che nel testo e nelle stesse melodie, siano rimaste integre, senza alcun tipo di intervento deviante o corruttivo.
Un riferimento sicuramente dovuto è quello individuabile, oltre al portato sacro e teologico, al senso del ringraziamento, tipico dei questuanti; maggiori benedizioni e grazie venivano ipotecate per i migliori offerenti.
I questuanti potevano senz’altro essere riconoscibili nelle molteplici locali confraternite, ognuna dedita ad una particolare devozione o posta a presidio di un punto focale della religione.

Testo epifanico, ma non solo.
Quasi tutte le tipologie dei canti nei vari paesi valsabbini affrontano i temi dell’intera vita del Cristo, dalla nuda stalla, dalla notte magica, al viaggio dei Magi (tema ovviamente centrale), alla strage degli innocenti, al viaggio in Egitto, per finire con la predilezione verso il drammatico evento della crocifissione e del conseguente dolore, con esplicita citazione del buon ladrone, chiaro riferimento popolare del pentimento sincero e del perdono avvenuto.

Ritorna, anche quest’anno, come in ogni Natale, in Valle Sabbia, il canto popolare della Stella, col suo fascino folclorico di antica laude itinerante: non rappresenta certamente più il pathos religioso di un rituale passato e, pur essendo unico, non è nemmeno rispondente alle aspettative funzionali di una società che non esiste più; mantiene, però, nella Valle, una grande importanza storica e una indubbia vitalità di origine autenticamente popolare.

Per me che lo seguivo fin da piccolo, a dovuta distanza per una rappresentazione di soli grandi, e, poi, da ragazzetto, pienamente partecipe del gruppo dei questuanti, è certamente, a tutt’oggi, la riscoperta di un primordiale sentire, non vacuo e rituale, ma profondamente autentico e gelosamente custodito.

C’è un altro aspetto che collima con un augurio natalizio:
“queste voci” vanno ascoltate non come l’eco di un mondo che scompare e non appartiene più a un oggi così diverso, ma come la testimonianza dell’esistenza, dentro un paesaggio sempre più inarrestabilmente globalizzato e ostentatamente liberista, con tutte le sue dure conseguenze, di un piccolo filo rosso di cultura “autonoma” e “alternativa”, cioè di una civiltà con una sua storia, con dei suoi precisi connotati, con una sua visione del mondo, ancora capace, pur in una drammatica condizione di ricordo, di resistere alla ”inculturazione” e alla ”alienazione” dei sistemi consumistici e dei suoi massificanti strumenti di mediatica moderna comunicazione.

Di seguito riporto una dizione del testo raccolta in “Chèl pòc che g’òm nòter vèl dom”, in “Canti e Mimi del Teatro Popolare” di Provaglio Val Sabbia, del 31 ottobre 1979.

“Ogni anno ritornano i viandanti della notte con la stella: cantano l’inno della luce al bambino povero e infreddolito…”.


1.Noi siamo i tre re
venuti dall’Oriente
per adorar Gesù,
che è un Re superiore,
di tutti il maggiore,
di quanti nel mondo
ne furon giammai.

2.Ei fu che ci chiamò
mandando la stella
che ci condusse qui.
“Dov’è quel Bambinello,
grazioso e bello?”
“In braccio a Maria,
che è Madre di Lui!”.

3.L’amabile Signor
si merita i doni
assieme ai nostri cuor,
perciò abbiam portato
incenso odorato
e mirra ed oro
intorno al Re Divin.

4.Quell’oro che portiam
soccorre di Maria
alla sua povertà;
l’incenso è l’odore
che toglie il fetore
di stalla immonda
in cui troviam Gesù:

5. E questa mirra poi
insegna del Bambino
la vera umanità;
ci mostra la passione
l’amaro boccone,
l’amara bevanda
che per noi soffrirà.

6. Or noi ce ne andiam
ai nostri paesi
da cui venuti siam;
ma qui ci resta il cuore
in braccio al Signore,
in braccio a Maria
e al Bambinel Gesù.

Di Giuseppe Biati

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