Il Sant'Antonio Abate del Moretto
di Emanuele Busi

Ho inaugurato questo blog parlando del meraviglioso dipinto morettiano di Paitone. L’articolo di oggi tratta di un’altra importantissima opera dell’artista bresciano, il Sant’Antonio Abate ubicato ad Auro


Casto è un Comune che fa del paesaggio circostante il suo punto di forza: immerso nella natura, è una delle mete predilette per gli amanti della natura e del trekking. In questo paesino è conservata forse l’opera più preziosa del panorama artistico valsabbino: la tela raffigurante Sant’Antonio Abate, opera del Moretto.
 
Quest’opera fu commissionata dopo che, il primo agosto 1527, secondo la tradizione, la Madonna, presso i monti di Auro, frazione di Casto, apparve al pastore Bartolomeo Silvestri, storpio ad un braccio e ad una gamba, guarendolo. Quattro anni dopo si ottenne la licenza, da parte del Vescovo di Brescia, di costruire un santuario sul terreno donato dal miracolato, dedicato a ‘Santa Maria della Neve’. 
 
La profonda devozione che legava gli abitanti a questo luogo fece sì che tra i fedeli più benestanti sorgesse una sorta di “gara” per commissionare opere sempre più importanti. 
 
Per quanto riguarda il Sant’Antonio Abate, il committente dev’essere probabilmente stato Donato Savallo, originario di questi luoghi, arciprete del Duomo di Brescia a partire dal 1524.
 
Il tema iconografico di questa tela era molto sentito dagli abitanti del Savallese, in quanto questo Santo taumaturgo era invocato contro le malattie che potevano colpire uomini e animali da fattoria (cosa assai nefasta per la società agreste valsabbina dell’epoca), come sta a dimostrare il porcello in basso a sinistra del quadro; inoltre era considerato il protettore contro le presenze malefiche che si credeva infestassero i monti circostanti.
 
La tela è databile tra il 1530 e il 1535. In essa la scena è dominata dal Santo - seduto su di un trono e vestito di ricchi paramenti - che, con sguardo severo, tiene in una mano il bastone pastorale, nell’altra, fiamme vibranti simbolo della malattia della quale è guaritore, l’herpes zoster, detto volgarmente “fuoco di sant’Antonio” appunto.
 
In questo dipinto, come osservato per la prima volta da Roberto Longhi, Moretto non utilizza la vecchia prospettiva tipicamente quattrocentesca ma si serve di nuovi effetti di illusionismo intenso, tipicamente lombardo, ottenuto tramite un’illuminazione più radente e grazie a forme che fuoriescono dal tracciato del quadro (come dimostra il porcellino nero sul primo scalino a sinistra).

Il realismo aggressivo e la violenza gestuale dominano dappertutto; ciò può essere la risposta ai dettami di una committenza legata al mondo rurale.
 
 
 
 
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