«Fedi in gioco», un viaggio nelle religioni
di Nicola Bianco Speroni

Vi proponiamo l’interessante riflessione introduttiva di Nicola Bianco Speroni alla rassegna cinematografica sul dialogo interreligioso presentata ad Agnosine nelle scorse settimane


Nella prima serata della rassegna cinematografica “Fedi in gioco”, dedicata a film a tematica religiosa, organizzata dall’oratorio di Agnosine, con don Roberto Ferranti, responsabile diocesano per il dialogo interreligioso e sacerdote fidei donum in Albania, è intervenuto anche Nicola Bianco Speroni, Vice Presidente dell’Associazione Sfera Mons. Gennaro Franceschetti Onlus e fondatore del Rotary Valle Sabbia, impegnato in diverse iniziative sociali e di cooperazione internazionale. Vi presentiamo la sua introduzione.


La rassegna “Fedi in gioco” si presenta ponendoci due domande alquanto impegnative: “Abbiamo davvero bisogno della religione? Le religioni sono necessarie alla convivenza sociale?”. In questi tempi proprio mentre le credenze religiose sembrano sparire, si assiste al ritorno del fondamentalismo religioso e si parla di scontro tra civiltà. 

Certamente in un contesto culturale intessuto dalla complessità e dal pluralismo culturale e da un politeismo di valori è fondamentale sviluppare la conoscenza delle singole religioni, come si propone questa rassegna. E non è certo un caso che Religion Today si è dato negli anni il sottotitolo programmatico di “viaggio nelle differenze” perché l’esperienza filmica assomiglia in termini di consapevolezza e scoperta dell’altro a quella del viaggiatore che all’arrivo si scopre diverso da com’era al momento della partenza.

Attraverso la mobilità degli sguardi il grande schermo ci insegna a guardare con occhi diversi dai nostri, a sperimentare nuovi punti di vista, ad accettare e a far nostre le storie degli altri. Caratteristica del cinema è di rappresentare vividamente luoghi, situazioni, persone ed eventi ritraendo la religione in specifici contesti e così ricollegandola alle altre forze sociali, politiche ed economiche. Certamente questo approccio denuncia i limiti di una visione delle religioni come sistemi monolitici e impermeabili al cambiamento, spingendosi oltre i luoghi comuni per incontrare paesaggi umani che sono ben più complessi rispetto a quanto ci viene spesso presentato solo in bianco e nero.
 
Ritornando dunque alle domande iniziali: “Abbiamo davvero bisogno della religione? Le religioni sono necessarie alla convivenza sociale?” mi viene da dire che basta osservare l’esistenza umana per constatare come la vita degli uomini è condizionata dalla presenza della morte. Da questa situazione di radicale precarietà nasce l’angoscia da cui sorge il domandare originario che ci rende pensanti: se non esistessero la sofferenza e la morte probabilmente non esisterebbe la vita pensante.

La sola via che sembra aprirsi all’uomo per uscire dalla situazione dell’angoscia è quella di capovolgere la direzione del cammino: resistendo al destino che sembra gettarlo verso il nulla, l’uomo è chiamato a “pro – gettarsi”, ritrovando in se stesso la sorgente di una vita più forte dell’apparente trionfo della morte. E’ così che dalla morte si nasce pellegrini verso la vita: vivere non è soltanto imparare a morire, ma anche lottare per dare senso alla vita.

Dove l’uomo non si arrende di fronte al destino della necessità e si fa interrogante, lì si rivela la dignità della vita, il senso e la bellezza di esistere. Lì l’uomo si riconosce non come un condannato alla terra, ma in essa e per essa come un “mendicante del cielo” (Maritain). L’uomo appare, dunque come un cercatore di senso, che lottando contro l’apparente trionfo della morte, è provocato, interrogato ed attratto dall’ultimo orizzonte, dove trionfi la vita.

Di questo orizzonte non si può disporre, ci si può solo mettere in ascolto, in attesa, l’uomo sperimenta se stesso come autotrascendenza, esodo verso il Mistero che avvolge ogni cosa, desiderio e ricerca dell’inafferrabile e dell’indefinibile. La struttura originaria dell’esistenza umana, secondo Rahner, è pertanto il suo movimento esodale, la sua autotrascendenza: “L’uomo è spirituale, vive cioè la sua vita in una continua tensione verso l’assoluto, in una apertura a Dio”.

Questo movimento non è certo obbligato ed è consentito all’uomo rifiutarlo. Il nascondersi e rivelarsi di Dio è il fondamento ontologico della condizione di libertà dell’uomo, senza l’assenso gratuito dell’amore, infatti, né Dio si aprirebbe all’uomo, né l’uomo si aprirebbe a Dio. L’autotrascendenza non si realizza al di fuori di una scelta, di un’autodeterminazione morale: l’esodo della condizione umana è cammino di libertà.
 
Se l’uomo è strutturalmente un pellegrino verso la vita, alienazione è il sentirsi arrivato, non più esule in questo mondo ma possessore, dominatore di un oggi che vorrebbe fermare la permanente trascendenza del cammino. Scrive Buber: “L’esilio vero di Israele in Egitto fu che gli ebrei avevano imparato a sopportarlo”.

In effetti l’esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non si ha più nel cuore la nostalgia della patria. L’illusione di sentirsi arrivati, il pretendersi compiuti nella propria vicenda è la malattia mortale: si è morti quando non si vive più l’inquietudine e la passione del domandare, il desiderio di cercare ancora. E questo può accadere anche nell’esperienza religiosa, quando l’uomo si ferma, sentendosi padrone e sazio della verità, oscurando in se stesso non solo l’apertura a Dio, ma anche la propria dignità di persona.

E’ precisamente la mancanza di quest’ansia di ricerca che sembra costituire la debolezza della coscienza della nostra società nell’epoca cosiddetta “post-moderna”: se la ragione adulta e illuminata della modernità pretendeva di spiegare tutto e tutto aveva senso, per la post-modernità, inaugurata dalla crisi dei modelli ideologici, e affermata dal pensiero debole nulla sembra avere più senso.

E’ dunque questo un tempo di povertà
che, come osservava Heidegger, è “notte del mondo” non a causa della mancanza di Dio, ma per il fatto che gli uomini non soffrono più di questa mancanza: la povertà, che ci rende malati, è l’indifferenza, il non soffrire più dell’infinito dolore dell’ “assenza di patria”, la perdita del gusto a cercare le ragioni ultime del vivere e del morire umano.

Sembra così profilarsi la crisi del secolo che volge alla fine: l’epoca della decadenza, come la descrive Bonhoeffer: “Non essendovi nulla di durevole, vien meno il fondamento della vita storica, cioè la fiducia in tutte le sue forme. Mancando la fiducia nella giustizia, si dichiara giusto ciò che conviene… Tale è la situazione del nostro tempo, che è un tempo di vera e propria decadenza”.

La decadenza intesa non come l’abbandono dei valori, ma la rinuncia a cercare qualcosa per cui valga la pena di vivere. Nel clima della decadenza tutto cospira a portare gli uomini a non pensare più, a fuggire la fatica e la passione del vero, per abbandonarsi a ciò che è immediatamente fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata. La “cultura forte”, espressione dell’ideologia, si è frantumata nei tanti rivoli delle “culture deboli”, in quella “folla delle solitudini”, in cui è soprattutto rilevante la mancanza di orizzonti comuni, che piega ciascuno nel corto orizzonte del suo particolare. E dove muoiono le grandi speranze, trionfa il calcolo di bassa lega: alle ragioni del vivere e del vivere insieme, si sostituisce la rivendicazione dell’immediatamente utile e conveniente, la protesta fondata nell’interesse dell’ottica breve.
 
L’incontro con la Parola della Croce libera e cambia il cuore e la vita. Il cristianesimo è la religione della speranza: perciò i cristiani, anche in un mondo che ha perso il gusto a porsi la domanda del senso, devono continuare a vivere la passione del senso, avendo a cuore l’Eterno. Testimoniare l’orizzonte più grande, dischiuso dalla promessa liberante di Dio, vuol dire annunciare il Vangelo della riconciliazione all’inquietudine senza senso del nichilismo post-moderno.

Il Risorto invia la Chiesa proprio ad essere testimone del senso, anticipazione militante dell’avvenire promesso nella riconciliazione che già ora può essere accolta e vissuta. L’incontro libero dell’esperienza dell’esodo e dell’avvento è la fede, vita nuova che sorge con l’accoglienza del dono della riconciliazione. La fede non è quindi possesso e certezza, ma lotta, resistenza e resa; l’esodo non può contenere l’avvento, ma deve lasciarsi continuamente raggiungere da esso.

La fede tiene così insieme in maniera paradossale l’infinita distanza e l’inaudita prossimità che la riconciliazione offerta in Cristo rende possibile fra gli uomini e Dio. Vivere il dono di questa riconciliazione offerta in Cristo significa per i cristiani coniugare sempre nuovamente il loro esodo e quello della comunità degli uomini, in cui vivono, all’avvento inquietante e trasformante del Dio vivo.
 
 
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