Il caso Bertussi - Pankoff
di Guido Assoni

Questo nuovo articolo di Guido Assoni completa quello già pubblicato dal titolo "La banda dei russi".


Come il re, giusto un anno prima, cercava un appiglio per esautorare Benito Mussolini trovandolo nel voto del Gran Consiglio del Fascismo, così il commissario politico Leonardo Speziale cerca l’avvallo e lo ottiene nel pronunciamento di un tribunale partigiano, per porre in atto il suo disegno consistente nella soppressione di Nicolaj Pankoff (Nicola), comandante della banda dei russi.

Viene così pronunciata la sentenza di condanna a morte per Nicola
da eseguirsi da chiunque lo potesse reperire”, essendo notorio il fatto che il comandante russo non era affatto il tipo da farsi arrestare.

Facciamo un passo indietro.
Un rapporto di reciproco sostegno e fiducia lega Nicola a Francesco Bertussi di Marcheno, benestante trentenne coniugato con Eufemia Ghirardini nota come Tiberina e padre di due bimbi. Il Bertussi, uomo onesto, coraggioso, le cui idee antifasciste maturano nei due anni trascorsi al fronte sui Balcani, destina la sua casa e le sue proprietà rurali quali punto di riferimento per la banda dei russi e per i giovani renitenti che, dopo l’8 settembre, hanno scelto l’ardua via della montagna.
La figura di Cecco Bertussi può essere considerata, senza retorica, come l’autentica incarnazione della dimensione morale della Resistenza.

Nicola invece è un giovane comandante
, diffidente nei confronti dei politici, che dirige i suoi uomini con stile militare, ferrea disciplina e grande attenzione alla massima efficienza organizzativa.
Nel suo gruppo fanno parte alcuni renitenti valtrumplini tra cui Lino Belleri, futuro vice-comandante della 122^ brigata Garibaldi nei giorni dell’insurrezione e Mario Zoli, futuro caposquadra della stessa formazione.

Nella zona della Corna Blacca, dove si erano spostati a seguito di un rastrellamento tedesco al Pian di Vaghezza (Marmentino), i russi vengono sorpresi da un imponente schieramento di forze naziste coadiuvate da truppe fasciste.
L’effetto fu il dissolvimento del gruppo. Alcuni rimangono feriti, tra cui Michele Onopreiciuk, luogotenente di Nicola e tesoriere della banda, altri fatti prigionieri dai tedeschi, i superstiti dopo essere scesi in Valdorizzo  saranno successivamente incorporati, a gruppi, tra i distaccamenti C3, C4 e C5 della brigata Fiamme Verdi, F. Lorenzini in Val Camonica. 

E' in questo preciso momento di estrema difficoltà
e di sbandamento della banda che il commissario politico Leonardo Speziale pianifica in ogni dettaglio il tragico agguato, temendo la velocità di azione di Nicola, la sua spietata determinazione ed il suo temperamento energico ed imperioso.

La prima mossa è quella di sganciare i due italiani dal gruppo, ossia i già citati Lino Belleri e Mario Zoli.
L’ordine è perentorio e non ammette repliche. I due, dopo essere stati di fatto disarmati, dovranno rimanere rintanati in casa, il Belleri in quella del Bertussi ai Ruc e lo Zoli nella casa di famiglia sempre ad Aleno di Marcheno.

Siamo alla seconda settimana di settembre
, quando, accompagnato da due connazionali e da Mario Zoli e dopo innumerevoli peripezie, Nicola torna in Valtrompia con l’intento di ricomporre la sua banda e per verificare le condizioni di Michele Onopreiciuk, ripresosi dalle ferite, peraltro leggere, subite in combattimento ai piedi della Corna Blacca.

Gli eventi che si susseguono nei tre giorni dal 15  al 18 settembre 1944 sono i più controversi della Resistenza valtrumplina. 
Il Dott. Isaia Mensi, storico di Villa Carcina è addivenuto ad una nuova possibile ricostruzione avvalendosi di testimonianze e documentazioni raccolte in loco.  
Come vedremo ci sarebbero invero ancora alcuni dettagli che abbisognano di approfondimento, ma sulla veridicità dei fatti ci siamo.

Intanto Nicola capisce subito che
l’atteggiamento nei suoi confronti è cambiato e che si respira un’aria pesante intrisa dell’odor di sangue. Nonostante il coprifuoco imposto da Speziale, rintraccia Lino Belleri e gli chiede la cortesia di accompagnarlo dal comune amico Cecco Bertussi per un incontro chiarificatore.
Il colloquio si svolge in casa del Bertussi ad Aleno, nelle ore notturne del 15 settembre. E’ importante, come vedremo, memorizzare bene questa data. 

Dunque, Lino Belleri accompagna Nicola all’appuntamento, ma non entra in casa per non contravvenire alle disposizioni del commissario politico. Rimane quindi all’esterno dell’abitazione.
I toni della discussione si fanno accesi quando Cecco Bertussi mette al corrente l’amico Nicolaj Pankoff della condanna a morte che pende sul suo capo. Il russo s’infuria e il Bertussi, a fatica, riesce a calmarlo.
La moglie di quest’ultimo, presente al burrascoso colloquio, rimane angosciata mentre Nicola, molto contrariato, abbandona il luogo dell’incontro.

Alle prime ore dell’alba del 18 settembre
, ovvero dopo tre giorni dall’incontro di cui sopra, Nicola con il suo luogotenente Michele e due superstiti del gruppo dei russi, decide di recarsi da Francesco Bertussi per comunicare la loro decisione di trasferirsi in Val Camonica con probabile destinazione la Svizzera.
Siamo in località Dossolino, alle porte di Aleno di Marcheno.

Alle quattro del mattino scatta l’agguato. Una raffica di mitra  si abbatte  su Michele, alla testa del gruppo, ferendolo irrimediabilmente e su Nicola che stava dietro di lui. Quest’ultimo, ferito in modo leggero, risponde al fuoco mettendo in fuga l’aggressore o gli aggressori rimasti sconosciuti.

E’ in questa fase che si rende necessario l’approfondimento di cui parlavamo poc’anzi.
Gli studiosi concordano sul fatto che sia stato il gruppo guidato da Luigi Guitti (Tito Tobegia) a tendere l’agguato ai russi, ma sembra assodato che il gruppo Gheda-Speziale cui faceva appunto parte Tito, si trovasse sui monti tra Mura e Lodrino e pertanto in tutt’altra valle.

Solo nel pomeriggio del 18 settembre Tito sarebbe sceso verso il Lembro, zona che prende il nome dal torrente che scorre tra Lodrino e Brozzo.
Dopo la proditoria aggressione, i compagni aiutano Michele a portarsi più in alto fino a raggiungere la cascina dei fratelli Geremia e Piero Giovanelli da loro conosciuti in quanto collaboratori dei partigiani e perché avevano dato ospitalità a militari inglesi fuggiti dai campi di prigionia nell’autunno 1943. Lasciano Michele Onopriciuk morente adagiato ad un tronco di fico in prossimità del casolare.

I fratelli Giovanelli
, il cui  turno di lavoro presso l’armeria Beretta di Gardone Val Trompia ha inizio alle 5.00, escono di casa poco prima delle 4.30. Sentono i lamenti del ferito che, conoscendoli di persona, consegna loro il mitra, un revolver e lo zaino contenente le bombe a mano, ma trattiene per se una seconda pistola.
Geremia, accertatosi delle condizioni disperate in cui versa il compagno di lotta, ritorna precipitosamente in casa e informa la moglie Celinia Buccio sollecitandola di avvertire Cecco Bertussi, la cui abitazione dista pochi metri e Giuseppe Sabatti noto come il Moretto, staffetta del gruppo Gheda-Speziale.

Fattosi chiaro e dopo aver accudito il figlioletto di pochi mesi, Celinia Buccio si reca dal ferito cercando di tamponare la ferita con bende e quindi, si reca dai due sunnominati per renderli edotti della situazione.
Il Moretto tergiversa e non si fa più vedere mentre il Bertussi raccolti alcuni materiali di soccorso e sinceratosi che Michele non fosse armato si reca alla cascina Giovanelli per portare soccorso allo sventurato Michele.

Saranno state suppergiù le sette del mattino
quando il morente Michele estrae la seconda pistola e spara tre colpi a bruciapelo contro il Bertussi, chino su di lui nell’opera di soccorso, fulminandolo. Lo riteneva, a torto, il responsabile dell’agguato di qualche ora prima. Dopo di che rivolge l’arma contro se stesso ponendo fine all’agonia.

Nicola nel frattempo si era portato nella Valle del Lembrio
presso la cascina di Primo Paterlini, altro membro di spicco della Resistenza per farsi curare la ferita. Qui, verso sera sempre del 18 settembre viene raggiunto dalla squadra di sei elementi con in testa Luigi Guitti (Tito Tobegia), famoso perché l’unico, come sostiene Isaia Mensi, che “sapeva tenere separati gli ordini dalle opinioni”.

Nicola che conosceva di persona tutti i componenti del gruppo e conscio della condanna a morte che pendeva sul suo capo, se ne sta nascosto nell’adiacente fienile.
Ad un certo punto, rassicurato dalla figlia del Paterlini, s’azzarda a presentarsi, fermandosi prudentemente sul gradino della porta della cucina.

Dopo lunghe discussioni e mendaci garanzie, Nicola si decide a seguire il gruppo.
Prima però vuole tornare nel fienile a recuperare lo zaino e il mitra. Indietreggia senza voltare la schiena, richiude adagio i battenti della porta e in questo preciso istante viene investito dalla prima raffica di Tito seguita dalle altre del suo gruppo.

Sul corpo ormai inerme del comandante dei russi, nemico giurato e braccato dai nazifascisti della zona, si abbattono numerose altre raffiche facendone scempio, tanto che Maddalena Pedersoli, moglie di Primo Paterlini, dovrà riempire un secchio di bossoli.

Riporto la “Relazione mattinale del giorno 23 settembre 1944 – XXII (compilata ad ore 9,45):
Marcheno. Attività dei ribelli. Omicidio e suicidio: “Viene segnalato che ad ora imprecisata della notte sul 17 corrente, in frazione Aleno del comune di  Marcheno in Valtrompia (zona infestata da ribelli), in una sparatoria fra elementi fuori legge rimaneva gravemente ferito ed abbandonato dai compagni uno sconosciuto di nazionalità russa.
Egli, verso le ore 7 del mattino successivo veniva assistito da certo Bertussi Francesco di Giovanni classe 1914 da Marcheno, che si era trovato per caso di passaggio.
Dopo essere stato alla meglio medicato, il russo venuto a discussione con soccorritore Bertussi, gli esplodeva contro tre colpi di pistola freddandolo all’istante; rivolgeva quindi l’arma contro se stesso, uccidendosi con un colpo.
Cadaveri fatti rimuovere dopo sopraluogo del comandante gruppo presidi G.N.R. di Gardone Valtrompia con reparto di legionari ed autorità giudiziaria informata”.

Se tutti gli studiosi degli eventi della Resistenza valtrumplina sono concordi nella ricostruzione dell’uccisione di Nicola, suffragata da confessioni e testimonianze dirette, in maniera molto diversificata affrontano l’argomento dell’uccisione di Francesco Bertussi.
La letteratura resistenziale probabilmente si è allineata alle dichiarazioni congiunte predisposte nell’immediato dopoguerra dagli esecutori materiali dell’uccisione di Nicola e dei firmatari della sua condanna allorquando vennero chiamati a giudizio.

Sono così scaturite versioni inammissibili e testimonianze contraddittorie secondo le quali ad uccidere Cecco Bertussi sarebbe stato lo stesso Nicolaj Pankoff e che l’incontro chiarificatore tra il Bertussi e Nicola sarebbe avvenuto, non tre giorni prima come di fatto avvenne, bensì immediatamente prima dell’agguato.
Questa versione avvalorerebbe, a torto, la tesi del complotto cui si sarebbe prestato il Bertussi, infangandone la memoria.

La campagna denigratoria nei confronti di Nicolaj Pankoff per sminuirne l’operato e smitizzarne la figura carismatica continua impietosa nel dopoguerra al fine di nascondere la vera motivazione riconducibile alla costruzione di una egemonia politica e militare in Valtrompia.

Cito solo due passi tratti da un articolo apparso il 24/03/1957 su “La Verità”, voce ufficiale della federazione comunista bresciana dal titolo “I briganti diventano eroi per gli alfieri dell’anticomunismo”, in cui l’On. Italo Nicoletto a proposito di Nicolaj Pankoff afferma: “era rimasto uno sbandato che insieme ad altri commetteva rapine e terrorizzava i contadini, gettando discredito sul movimento partigiano”, mentre sui russi incorporati “obtorto collo” dopo l’eliminazione del loro comandante, nella 122^ brigata Garibaldi di matrice comunista, sempre l’On. Nicoletto così si esprime: “uomini di grande coraggio che seppero legarsi ai Partigiani Italiani nello stesso grande ideale di farla finita col regime di prepotenza e di terrore imposto dai nazisti e dai fascisti e riconquistare la libertà e la dignità per tutti i popoli.
Tutti i partigiani, a qualunque formazione abbiano appartenuto, hanno ancora vivo il ricordo dei partigiani russi, parecchi dei quali caddero nelle tre valli bresciane”
.

Non me la sento di commentare questi giudizi così come per il trafiletto dedicato a Francesco Bertussi dal generale Romolo Ragnoli nel suo elenco dei caduti appartenenti all 122^ brigata Garibaldi: “Caduto nel corso di una azione a fuoco contro i nazifascisti – Dosso di Marcheno il 18/09/1944 – Partigiano”.

Al cimitero di Marcheno, sulla lapide del loculo ove sono conservati i resti del povero Bertussi, vi è ancora l’originaria epigrafe che recita: “Bertussi Francesco di anno 30 barbaramente assassinato in una vile imboscata all’alba del 18/09/1944”.

Concludo con una citazione, forse anche troppo impietosa, di Albert Camus, mutuata dagli amici di Valtrompia set (Il Giornale della Valtrompia): “Nei periodi di rivoluzione, sono i migliori che muoiono. La legge del sacrificio fa si, che alla fine siano sempre i vili e i prudenti ad avere la parola, perché gli altri l’ hanno perduta, dando il meglio di sé”.
 
Guido Assoni
 
Bibliografia
Santo Peli: “Il primo anno della Resistenza – Brescia 1943-1944”;
Carlo Bianchi “La contrada del ribelle”;
Isaia Mensi: “Memoria di Tito – Luigi Guitti”;
I mattinali della Questura repubblicana di Brescia – attività ribelli
 
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