Sono venuto a prenderti
di Ezio Gamberini

Trenta gradi alle dieci di sera, in camera, non li avevo mai percepiti, e l’estate, almeno quella astronomica, è soltanto all’inizio! Prendo il cuscino, scendo in taverna, apro il divano letto e mi stendo, rinfrancato…  


Da due o tre giorni l’afa è insopportabile, in questo giugno bollente con temperature medie superiori di tre o quattro gradi rispetto a quelle dell’anno precedente e con picchi di trentasei-trentasette gradi; fai una doccia, ti asciughi, e immediatamente ricominci a sudare per l’umidità intollerabile, e dopo due minuti in questo stato ti vien da dire: 

“Che voglia di fare una doccia!”.

Per fortuna esiste la taverna, che sin da subito, da quando cioè abitiamo la nostra casa in via don Belli, abbiamo attrezzato con un divano che all’occorrenza si apre e offre un comodo e spazioso letto matrimoniale.

In queste condizioni di caldo insostenibile, che di norma nel nostro paese valsabbino si verificano complessivamente per non più di dieci-quindici giorni ogni estate, è per me quasi una liberazione potermi appropriare di questo ambiente.
Non appena discese le scale, l’afa scompare immediatamente, e la temperatura è gradevolissima, attestandosi invariabilmente sui ventiquattro gradi per quasi tutta l’estate. 

Mi stendo sul letto e, per gustare in modo apprezzabile la freschezza delle lenzuola, assumo la posizione dell’“Uomo Vitruviano”.
Ogni giorno ci capita di osservare quest’opera d’arte: la possiamo ammirare sul dritto delle monete da un euro, riproduzione dell’ingegnoso disegno creato da quell’autentico mostro di creatività che fu Leonardo da Vinci per comprovare la perfezione del corpo umano, raffigurato nelle varie posizioni di braccia e gambe, riprodotto all’interno di un cerchio e di un quadrato, che rappresentano la Terra e l’Universo, perfetta simbiosi tra arte e scienza.

Ma io adesso non penso a tutto ciò; a gambe e braccia larghe mi sto godendo il refrigerio, mentre Grazia, che adora il caldo in ogni caso, resiste in camera, in verità senza far troppa fatica.

Dopo aver letto qualche pagina, m’infilo nelle orecchie le cuffiette dell’i-pod, sul quale ho trasferito i miei programmi radio preferiti, e chiudo gli occhi.
Il sonno, con quel freschetto ristoratore, è davvero invidiabile.

Ai primi bagliori dell’aurora, che si rafforzano con il passare dei minuti, ficco la testa sotto il cuscino, e quando poco dopo la levo, resto abbagliato dall’esplosione di luce che si manifesta accanto al letto, proprio tra le due finestre collegate alle bocche di lupo.
Resto senza fiato, non so spiegarmi di cosa si tratta; sembra un’entità massiccia, alta due metri e larga uno, luminosissima e vibrante, ma allo stesso tempo eterea e indistinta. 

E’ luce, insomma, pura luce!  

E lo stupore si accresce quando da questa “cosa” sento esclamare:
“Sono venuto a prenderti”. 

“Oh, oh, non facciamo scherzi
– rispondo dopo qualche istante di stupore ma per nulla intimorito, forte delle mie ragioni e memore degli accordi stabiliti a suo tempo - qualche anno fa abbiamo stipulato un patto con il tuo ‘Capo’: fino a quando non avrò pagato tutti i miei debiti, non potete venire a prendermi!”. 

“Guarda qua: ecco il documento che attesta la chiusura del mutuo Jeremy
(che bella idea, scomodare Geremia…)”.

Mi ha preso in contropiede, ma ribatto prontamente, determinato:
Ma quella è una sciocchezza, un debito di poco conto, una piccola cosa che serviva alla cooperativa per comprare il terreno su cui è costruita la casa della comunità e l’abbiamo sostenuto in tanti soci, proprio perché, appunto, fosse un peso leggero e sostenibilissimo. D’accordo, quello è terminato, ma io ne ho ancora di mutui, eh”.

“Mhhh, allora ci deve essere qualche errore…”.

“Eh sì, aggiornate i vostri data-base, cari miei. E poi, è questo il modo? Lo sai che fra tre giorni si sposa mio figlio? Ti sembra il caso di venire a prendermi ora?”.

“Ahhhh, tutti uguali, voi… e poi vorrai diventare nonno… e poi questo e poi quello; se dessimo retta a tutti, la terra sarebbe popolata da settantatré miliardi di miliardi di persone. Ma lo sai quante volte siamo già intervenuti in passato, con te?”.

L’affermazione mi lascia sbigottito:
“Che vuoi dire?”.

“Ricordi quando da bambino ti buttavi da altezze stratosferiche, alla Travada, senza neppure vedere in che punto ti saresti immerso nella seriola? Sai quante volte abbiamo dovuto spostare temporaneamente il muretto, senza che nessuno se ne accorgesse, per evitare che ti sfracellassi?”.

“Ah, ecco perché mi riusciva sempre…”
, replico sconcertato.

“… e quella volta in bicicletta, avevi undici anni, in cui alla rotonda tagliasti improvvisamente a sinistra per andare al negozio del Cinto (dove facevi incetta di caramelle e patatine che facevi segnare sul libretto all’insaputa della tua mamma), senza segnalarlo, e la macchina dietro ti travolse, procurandoti miracolosamente soltanto qualche graffio?”

Ero senza parole, ricordavo perfettamente l’accaduto e mi chiedevo come fossi riuscito a non farmi niente, mentre la bicicletta era da buttare.

“… e quando per imboccare la provinciale sei uscito dal Ponte Nuovo, in cui c’era uno stop, senza guardare chi transitava a destra e a sinistra… ah, ah, avevi diciotto anni e la patente nuova di zecca?”
.

Ricordavo, eccome se ricordavo: quando passai, mi accorsi subito, forse ero soprappensiero, di non aver guardato chi arrivava e avevo pensato come mi fosse andata non bene, ma benissimo! In seguito non mi capitò mai più una disattenzione del genere, che avrebbe potuto avere effetti nefasti.

“Non ti successe nulla, certamente, perché all’ultimo secondo ‘obbligammo’ un tizio che stava andando dritto a curvare a destra, altrimenti avrebbe travolto la tua cinquecento; questo signore se lo sta ancora chiedendo adesso, a distanza di quasi quarant’anni, come mai la sua macchina che scendeva dalla valle, senza nessuna intenzione di entrare in paese, improvvisamente e inspiegabilmente all’altezza del ponte sia svoltata a destra…”.

“Eh sì, mi sembrava strano che tutto fosse andato troppo liscio…”, conclusi sommessamente.

Ma la “luce” proseguì:

“E nove anni fa? Il tuo cuore si era già fermato, e sinceramente pensavamo fosse la volta buona, ma non so come e ignoro il perché (devi essere super raccomandato, e io sono convinto che in quell’occasione sia intervenuta Sua Mamma!) all’ultimo istante abbiano deciso di fartelo ripartire… e sei ancora qui, ma adesso…”.

Non lo lasciai proseguire e lo interruppi bruscamente:

“Te lo prometto, la prossima volta non farò eccezioni, ma… i patti sono da rispettare, eh! Di debiti ne ho ancora, perciò…”,

“Filare!”, pensai, ma mi guardai bene dal pronunciarlo.

E poi, col passare dei minuti, dalle bocche di lupo il chiarore mattutino è entrato sempre più vigorosamente e ha preso il sopravvento, fino a far svanire la fantastica essenza luminosa che mi aveva soggiogato fino a quel momento.

Ho deciso, domani andrò in banca e cercherò di stipulare qualche nuovo mutuo, il più lungo possibile. Meglio mettersi al sicuro.
E poi, da questa notte dormirò sempre con gli occhiali da sole, non si sa mai.

Ecco, il resoconto della mia prima nottata trascorsa quest’anno in taverna è finito.

Avrei voluto concludere il racconto con: 
“Zacchete, anche stavolta Ti ho fregato!”, ma ci mancherebbe…

Non lo farò mai.
 
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