La banda dei russi
di Guido Assoni

Il 05 dicembre 1943, un gruppo di soldati russi catturati dalle truppe naziste sul fronte orientale e poi forzosamente obbligati a prestare servizio nella Wehrmacht o nella Speer (corpo ausiliario armato dell’esercito tedesco), fugge dai reparti tedeschi di stanza a Brescia e si concentra sul monte Guglielmo in Val Trompia


Il loro comandante, Nicolaj PanKoff (Nicola), è un giovane ventenne, allievo ufficiale e studente in ingegneria. Ragazzo intelligente, deciso e coraggioso darà filo da torcere ai nazifascisti che lo braccano con ostinata persistenza.

La banda dei russi è l’unica formazione presente sulle montagne a cavallo della Val Trompia e della Valle Sabbia nell’inverno 1943/1944 in quanto i nazifascisti avevano in precedenza operato una serie impressionante di rastrellamenti e arresti che di fatto avevano lasciato le valli bresciane senza direzione operativa.

Nel frattempo nelle fila della Repubblica Sociale Italiana si distinguono in negativo il questore Candrilli ed il suo vice Quartararo impegnati a precettare uomini da inviare al lavoro coatto in Germania.
Fino al mese di aprile del 1944 il gruppo dei russi non intraprende alcuna attività militare degna di nota, ma limita la propria azione in un’operazione di mera sopravvivenza cercando di procurarsi cibo, armamento e denaro presso commercianti ed industriali fascisti evitando azioni illegali che potessero configurasi come soprusi nei confronti della popolazione civile.

All’uopo vale la pena ricordare che il primo ribelle caduto nel bresciano è proprio un componente di questa banda, passato per le armi dallo stesso Nicola per essersi reso colpevole di aver sottratto viveri ad un malgaro senza averlo remunerato.

Col passare dei giorni, il gruppo dei russi diventa un punto di riferimento imprescindibile per i giovani renitenti che scelgono la montagna.
Un capillare aiuto viene loro fornito da alcuni esponenti comunisti locali, in primis da Francesco Bertussi di Marcheno e dal lumezzanese Tranquillo Bianchi che pagheranno con la vita il loro slancio umanitario.

La casa del Bertussi diventa un punto nevralgico della Resistenza,
la base di riferimento per i russi ed il centro organizzativo delle prime attività del Movimento di Liberazione in Val Trompia.

L’attività della banda dei russi, come del resto quella di altri gruppi autonomi, si fa via via più incessante e culmina il 28 giugno 1944, con l’assalto alla caserma della Guardia Nazionale Repubblicana di Brozzo, con la cattura dell’intera guarnigione e facendo ingente bottino di armi e munizioni.

Poco prima veniva demandata a Nicola la triste incombenza di eliminare il tenente Martini reo di tradimento alla causa partigiana.
Durante il bombardamento alleato su Brescia del 13 luglio 1944, circa duecento detenuti politici riescono ad evadere dal carcere e a portarsi in Val Trompia.
Tra questi Leonardo Speziale, uno tra gli organizzatori della lotta armata e promotore dei Gruppi di Azione Patriottica (G.A.P.) nei mesi di ottobre e novembre del 1943 ed al quale il partito comunista conferirà l’incarico della costituzione della 122^ brigata Garibaldi.
 
E’ notoria la difficoltà di diffusione e di crescita della resistenza armata sui monti del bresciano. Tale situazione viene definita senza mezzi termini “disastrosa” dalle relazioni dei delegati e degli ispettori comunisti fino all’estate del 1944.

Emblematico un rapporto ufficiale inoltrato dal Comando generale di Milano alla 54^ brigata Garibaldi: “Siamo sgradevolmente sorpresi nel non ricevere da vario tempo vostri bollettini di operazioni. E’ questo il momento più che mai in cui le nostre formazioni partigiane devono essere all’offensiva ed infliggere al nemico i colpi più duri”. Prosegue poi ancora il dispaccio: “Si tratta di dare lo sforzo massimo dei comandanti, dei commissari e di tutti quanti vogliano effettivamente contribuire alla lotta di liberazione delle nostre case e riguadagnare il tempo perduto e fare in poche settimane ed in pochi giorni quanto non si è fatto durante sei mesi”. 

Sono diverse le ragioni per cui il partito comunista non è in grado di disporre di una propria formazione in Val Trompia.

La prima consiste nel fatto per cui le valli bresciane si trovano nel cuore della sede della Repubblica Sociale Italiana sotto l’occupazione tedesca in un contesto che prolifera di informatori prezzolati, spie, rastrellatori, confidenti e spifferatori di dicerie e sussurrii raccolti nei bar e nelle fabbriche.

La cultura politica, soffocata da vent’anni di silenzi, è scarsa e limitata ad una ristretta cerchia di militanti.

L’identificazione degli operai delle fabbriche quale bacino di reclutamento della lotta armata risulta essere di difficile attuazione in quanto il settore occupazionale è rappresentato essenzialmente dalla produzione di armi da guerra per l’esercito tedesco.

Un altro elemento non trascurabile è rappresentato dalla tradizionale egemonia culturale e sociale dei cattolici bresciani nella resistenza armata.
Infatti l’organizzazione e la radicalizzazione nel territorio delle Fiamme Verdi, la loro capacità di reclutare in loco quadri dirigenti affidabili fa da contraltare con la resistenza comunista che si affida a dirigenti politico-militari di diversa provenienza ed estrazione come il comandante triestino Giuseppe Verginella ed il commissario siculo Leonardo Speziale noto come “lo zolfataro”, sperimentati combattenti e rivoluzionari di professione che hanno fatto esperienza nella guerra civile spagnola, nella resistenza francese, nel carcere duro e nel confino.

L’imperativo categorico ed angoscioso imposto dai quadri dirigenti del partito, ovvero quello di riguadagnare il tempo perduto, convince lo Speziale a porre in atto un tentativo, peraltro molto blando, di inquadrare nella costituenda 122^ brigata Garibaldi i vari gruppi autonomi operanti sui monti bresciani.

I dirigenti comunisti sono convinti che Nicolaj Pakoff
e i suoi soldati, figli della rivoluzione leninista, abbiano le argomentazioni giuste per far parte del nucleo iniziale della costituenda formazione garibaldina.

Nicola, che vede molto lontano, ritiene invece che, il solo fatto di entrare a far parte come aggregato in una formazione partigiana italiana, non possa far altro che nuocergli al momento della resa dei conti. Soprattutto nel caso di riconsegna da parte degli alleati all’Armata Rossa. Sicuramente sarebbe emerso il reato di collaborazionismo, seppur per incorporazione coatta nell’esercito tedesco.  Su questo punto Speziale è intransigente e lo ribadisce in più di una occasione durante i vari scontri verbali con Nicola.

Invece la circostanza dimostrabile di aver combattuto una guerra come comandante partigiano russo, non contingentato nei reparti italiani, avrebbe potuto avere un riconoscimento differente in patria.

Da qui il categorico rifiuto dell’allineamento o sottomissione ai garibaldini suffragato anche dalla scarsa considerazione che i russi e Nicola in particolare, avevano per i soldati italiani.
E’ stridente il contrasto tra le doti di comando dimostrate da Nicola e la magra figura degli improvvisati comandanti garibaldini che si dileguavano alle prime difficoltà.

In un diario del russo Acef Paolo Ivanovic, recuperato dalla famigerata brigata nera Tognù durante uno dei tanti rastrellamenti, si può leggere: “I partigiani italiani non hanno fatto nulla sino ad ora, ricevevano e venivano aiutati dalla popolazione e si dispersero poi al sopraggiungere dei primi freddi… sperare nella collaborazione del comitato comunista non conviene.  
Gli italiani non sono una razza guerriera e il comitato è composto di elementi artigiani”.

Per rendere ancora più chiaro il concetto sopra esposto basti ricordare l’epilogo dell’armata cosacca in Italia dell’atamano Krasnov alleato ai nazisti. A fine guerra un considerevole numero di cosacchi si presenterà agli alleati confidando nel loro senso umanitario.
Saputo invece che il loro destino sarebbe quello di essere riconsegnati all’Armata Rossa, in oltre cinquecento compresi donne e bambini, si getteranno nelle acque del fiume Inn in un suicidio di massa. I loro comandanti, rimpatriati, saranno tutti fucilati, dopo regolare processo, per intelligenza con il nemico.

Vista l’impossibilità di attuare nei ristretti tempi imposti dal partito
, il progetto di monopolizzare il movimento partigiano o meglio, di spartirsi il territorio con le Fiamme Verdi di estrazione cattolica, il commissario Leonardo Speziale a cui evidentemente faceva difetto la calma e la ponderazione, decide per l’eliminazione dei capibanda di formazioni autonome al fine di poter poi assorbire i componenti nelle formazioni “regolari”.

Nel frattempo, il prestigio di Nicola, agli occhi della popolazione e del nucleo di italiani componenti la costituenda brigata garibaldina, accresce a dismisura dopo l’azione fulminea di Brozzo.
La concomitanza con analoghe azioni intraprese da altri gruppi autonomi contro i distaccamenti della G.N.R. in alta Val Trompia induce la polizia fascista a ritirare per un paio di mesi tutti i militi operanti oltre l’armeria Beretta di Gardone Val Trompia dove viene istituito un posto di blocco permanente.

Conscio della popolarità che riscuote la figura del comandante russo, Leonardo Speziale intraprende un’azione denigratoria al fine di smitizzarne l’operato e sminuirne la figura carismatica.
Si parla anche insistentemente di una decisione collegiale di condanna a morte nei confronti del combattente russo pronunciata in una baita della Garotta sopra Bovegno dai comandanti delle formazioni partigiane della zona.

Lo storico valtrumplino Santo Peli
dubita sul fatto che tale riunione abbia effettivamente avuto luogo non avendone avuto riscontro nelle memorie scritte di Emilio Arduino e Piero Gerola.
Sta di fatto che i comandanti partigiani ebbero i loro guai nell’immediato dopoguerra per questo loro supposto pronunciamento.

Comunque sia, avvenuta o meno la riunione alla malga Garotta, sarà comunque il leitmotiv per giustificare l’eliminazione di Nicolaj Pankoff.
Caddero per ordine di Leonardo Speziale, in una tragica sequenza e a tradimento sotto il fuoco che era amico, i fratelli Cecco e Arturo Vivenzi (solo due mesi dopo l’uccisione del loro padre da parte della squadraccia fascista che faceva capo a Ferruccio Sorlini), e poi di seguito il comandante Gimmy noto come “il milanese” e il suo aiutante Mario.
 
In Val Camonica per mano delle Fiamme Verdi del futuro generale Ragnoli, si verificherà l’assurda consegna ai tedeschi con conseguente uccisione del colonnello Raffaele Menici. 
Nelle valli orobiche fu la volta di Mino del Bello e dei suoi uomini ad essere vittima dell’istituzionalizzazione ritardata a causa delle debolezze garibaldine.

Più tardi lo stesso Speziale e i quadri dirigenziali del partito comunista saranno direttamente responsabili della cattura di Giuseppe Verginella da parte di reparti della G.N.R.
Il trasferimento dello Speziale quale ispettore delle brigate Garibaldi del Veneto si rivelò alquanto tardivo.

I danni cagionati erano ormai irreparabili sebbene certa pubblicistica resistenziale si sia ostinata a celarli.
Per quanto riguarda il tragico epilogo della banda dei russi e, in primo luogo del loro comandante, mi riprometto di parlarne compiutamente in un prossimo post partendo dagli studi e dalle meticolose ricerche del grande storico valtrumplino Isaia Mensi che è riuscito, dopo un immane lavoro, a ribaltare letteralmente la storiografia consolidata sull’argomento.
 
Bibliografia
Leonida Tedoldi: “Uomini e fatti di Brescia partigiana”;
Rolando Anni: “Storia della brigata “Giacomo Perlasca”;
Santo Peli: “Il primo anno della Resistenza – Brescia 1943-1944”;
Rolando Anni: “Dizionario della Resistenza bresciana”;
Leonardo Speziale: “Memorie di uno zolfataro”;
Roberto Cucchini/Marino Ruzzenenti: “Memorie resistenti”;
Marino Ruzzenenti: “La 122^ brigata Garibaldi e la Resistenza nella Valle Trompia”
 
170615_resistenza.jpg