Quando la Fotografia è identità
di Leretico

Mi sono avvicinato nelle ultime settimane al mondo della fotografia. L'ho fatto frequentando un corso a Vestone organizzato dall'Associazione "Fotoclub 8 marzo"...


Durante il corso sono rimasto colpito dalla passione e dall'umanità di chi ci insegnava le basi per ottenere una buona fotografia: la passione per gli strumenti, per gli effetti, per la via che ci veniva mostrata.

Un turbinio di informazioni che alle mie orecchie prima, e ai miei occhi poi, creavano quella magia che avevo  immaginato tante volte e che si traduceva nel senso dell'immagine fotografica, quella che anch'io, nella mia indocile ignoranza, avrei voluto realizzare.
La curiosità mia profonda, di accostare quelle immagini a quelle che la scrittura talvolta riesce a realizzare, cominciava a trovare dei segni di risposta.

Sapevo già, perché tanti avevano parlato di fotografia, che avrei dovuto capire la differenza tra una "brutta" fotografia, come quella che riuscivo normalmente a realizzare, e una "bella" fotografia, come quelle che vedevo incorniciate nella saletta dedicata alle lezioni del corso.
E mi sembrava che tutto passasse per un concetto, che ancora era misterioso: la trasposizione di senso che faceva chiamare al fotografo "soggetto" ciò che io intendevo come "oggetto".

Piano piano, lezione dopo lezione, dopo aver intravisto l'applicazione della "regola dei terzi" da parte di alcuni grandi maestri, dopo aver visto proiettate su un grande schermo fotografie di un discente carente quale ero, e purtroppo sono ancora, ma soprattutto dopo aver visto me stesso in alcune di quelle fotografie, mi sovveniva una lettura ormai lontana di un testo di Roland Barthes intitolato "Camera chiara" (1980).

Imparando la geometria del "bello" fotografico ritornava in me il ricordo di quella stranissima parola, citata da Barthes: "autoscopia":
"La fotografia è infatti l'avvento di me stesso come altro: un'astuta dissociazione della coscienza d'identità. Fatto ancora più curioso: è prima della fotografia che gli uomini hanno maggiormente parlato della visione del doppio. L'autoscopia viene accostata a un'allucinosi; per secoli essa fu un grande tema mitico. Ma oggi è come se disconoscessimo la follia profonda della fotografia: essa ricorda la sua eredità mitica solo attraverso quel lieve disagio che ricorre quando 'mi' guardo in un rettangolo di carta."

Era da quella lettura che sapevo che la Fotografia, con la "F" maiuscola indicante il suo senso mitico, pronuncia sempre un "è stato" in senso temporale che sdoppia il soggetto negando la sua identità.
È questa la follia della Fotografia: la negazione dell'identità.

Tuttavia quel testo parla della ricerca di un'identità perduta e infine ritrovata: l'autore cerca con disperata malinconia, scorrendo le foto della madre conservate e ordinate dal momento più vicino e recente a quello più lontano dell'infanzia, la sua essenza tanto amata ma scomparsa con la morte.
Ed ogni foto di lei che egli guarda, nell'intimità di una solitudine quasi infinita, non riesce a donargli quell'essenza agognata, perché sempre parla la lingua dello sdoppiamento, dell'identità frantumata che mai ricollega alla memoria la permanenza di quell'io così adorato.

Solo una foto, infine, ritratto di lei bambina nel Giardino d'Inverno della casa in cui abitava, in un lampo rivelatore, riesce a consegnargli lei "come in se stessa", come era stata per lui veramente, nel suo cuore.
Questo evento oltrepassa la follia, rende visibile ciò che l'invisibilità della fotografia nasconde.

Il vero senso di vertigine per la frantumazione dell'io, si ha quando si parla di ritratto:
"La Foto-ritratto è un campo chiuso di forze. Quattro immaginari vi s'incontrano, vi si affrontano, vi si deformano. Davanti all'obiettivo, io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte."

Il disagio che sempre provo guardandomi nelle fotografie che mi ritraggono, lo stesso che emerge quando ascolto per caso la mia voce registrata, prende corpo in questi quattro immaginari distinti.
Da una parte il problema del sembrare e dell'essere che abbiamo ogni volta che ci esponiamo allo sguardo altrui, dall'altra quell'uso della nostra immagine preda delle intenzioni del fotografo dopo essere stata preventivamente giudicata, ossia manipolata. Contrasto tra due mondi da cui emerge una maschera pirandelliana, dietro cui si nasconde, forse, il nulla.

Se non è il nulla sicuramente è uno "spettro" che deforma il nostro io nascondendolo non solo agli altri ma anche a noi stessi.
Così, la ricerca della Fotografia, quella che all'inizio mi aveva spinto, diventa magicamente ricerca di se stessi. La Fotografia invisibile, introvabile, lascia paradossalmente il posto alla speranza di capire qualcosa della propria identità, della propria umanità. E tale speranza compare misteriosamente, proprio come uno spettro.

Dietro il reale a cui la Fotografia sembra essere così legata, ci siamo, tralucendo incontestabilmente, sempre noi.
Grazie agli amici del "Fotoclub 8 marzo" per tutto quello che mi hanno trasmesso durante il corso e che qui ho riduttivamente tratteggiato.
 
Leretico
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