Angelo Del Bello - Un processo partigiano
di Guido Assoni

Negli ultimi tempi la storiografia ha compiuto alcuni passi in avanti nella ricerca di quel che possiamo ragionevolmente considerare come “vero”


 
Dobbiamo ancora accontentarci un po’, tenendo sempre ben presente quel concetto filosofico secondo il quale “la verità assoluta non esiste”.
Finalmente c’è un clima più sereno per affrontare alcuni temi scottanti e vengono ammessi fatti e testimonianze che fino a metà degli anni ottanta era impossibile trattare.

Il periodo resistenziale nel bresciano
è intriso di tragici avvenimenti che nulla hanno a che vedere con i nobili ideali antifascisti che hanno alimentato la Resistenza.
Assistiamo a brutali assassini con occultamento di cadavere tenuti nascosti per decenni in un clima di omertà, silenzi, reticenze e manipolazioni come nel caso del giovane studente Franco Passarella o efferati omicidi per scopo di rapina come nel caso del direttore postale Giulio Guerini sposato con Ester Stefani, sorella della beata suor Irene da Anfo.

O a proditorie eliminazioni di comandanti partigiani per ragioni ideologiche, per contrasti e rivalità interne ai gruppi, come nel caso del colonnello Raffaele Menici consegnato ai nazisti dalle Fiamme Verdi camune o nel caso di Nicolaj Pankov che si era rifiutato di unirsi con i suoi uomini ad una formazione garibaldina o ancora dell’annientamento del gruppo di Angelo (Mino) Del Bello, un comandante partigiano tanto efficace nella lotta contro i nazi-fascisti quanto insofferente alla resistenza organizzata.

Il partigiano Angelo Del Bello
(lui si firma con il cognome tutto attaccato) della brigata “Camozzi” – Giustizia e Libertà, già impiegato di buon livello all’AGIP di Fiorenzuola, è un uomo dalla spiccata personalità, un intraprendente, combattente abile e coraggioso che non abbassa mai lo sguardo, nemmeno quando forse servirebbe.

Personaggio carismatico, ma nello stesso tempo insofferente alla disciplina, riottoso ad accettare ordini e con la testa che a volte si ostina a voler andare per conto proprio, grazie al forte ascendente sui suoi uomini, mette entusiasmo a prescindere dallo stile di comando, anarcoide e senza coordinamenti.
Rende possibile l’impossibile con azioni clamorose anche contro soverchianti forze nemiche.

Memorabili alcuni colpi di mano come quando, per sfuggire ai posti di blocco, sempre più frequenti in quegli anni, si traveste da prete. 
Si narra che fascisti e tedeschi, sospettando il travestimento, lo avessero obbligato a celebrar messa per smascherarlo, ma Mino se la cava con disinvoltura anche per il fatto che da giovane aveva studiato in seminario cogliendo una delle poche se non l’unica possibilità di accedere all’istruzione post-elementare.

O ancora, quando una signora benestante rifiuta di concedere ospitalità alla sua banda con la conseguente ritorsione concretizzata nella requisizione di farina e formaggi distribuiti poi alla popolazione più povera.
Sequestri, sabotaggi sia militari che di ordine economico, eliminazione di fascisti e di spie, assalti ai treni e ai presidi tedeschi, se da un lato finiscono per farlo diventare un mito fra la popolazione contadina della Val Seriana, dall’altro infastidisce qualche altro capo brigata.

Dobbiamo sempre tener presente che a queste azioni temerarie e spettacolari sono spesso seguite rappresaglie sotto forma di incendi, saccheggi e distruzioni nei confronti degli incolpevoli abitanti della valle.

Cominciano così i contrasti e le rivalità tra i capi gruppo, in primis con il comandante della formazione, Bruno Amati (Massimo), con Norberto Duzioni “Cerri” del comando provinciale e soprattutto con l’ex compagno di lotta Fortunato Fasana (Renato).
Emergono a carico di Mino Del Bello responsabilità precise di imperizia o leggerezza nel coordinare lo sganciamento e la fuga dei suoi uomini dopo l’attacco alla scuola di guerra per ufficiali tedeschi al rifugio Copellotti di Borno in Val Camonica, circostanza che determina l’uccisione e la cattura di diversi partigiani.

E così in men che se ne dica, tutta l’attività della formazione Del Bello viene delegittimata.
Il capo viene accusato di insubordinazione, rifiuto di obbedienza, abbandono del posto e rapina a danno della popolazione civile, capi di imputazione che un Tribunale militare partigiano punisce con la condanna a morte mediante fucilazione.

Interessante la testimonianza di Don Severino Tiraboschi, parroco di Valgoglio, incaricato di portare gli ultimi conforti religiosi al condannato e magari di interporre la propria opera per la sua salvezza.
Ricordiamo per correttezza che già allora in molti ebbero a rivendicare la legittimità del suo operato, sulla base di una concezione della guerra d’azione partigiana contrapposta all’immobilismo attendista dei comandanti della brigata.

Il prete si rende però immediatamente conto che si intende procedere con estrema decisione e senza mediazioni di alcun genere.
Mino Del Bello non si capacita della condanna alla pena capitale comminata, anzi ritiene che si tratti solo di una sorta di intimidazione, tanto è vero che non ascolta nemmeno la lettura della sentenza e, anzi, si attarda a confabulare con i suoi vecchi compagni di lotta che di fatto lo hanno condannato.

Quando il parroco si accinge alla confessione e a formulare l’invito a scrivere le ultime volontà ai familiari, la situazione precipita.
Il condannato “smania…grida…si getta a terra…è un’anima disperata”.
La legittima riluttanza a colpire un compagno di lotta, comporta però difficoltà insormontabili a comporre il plotone d’esecuzione. 
Tutti lo hanno condannato ma nessuno vuol prendersi la responsabilità di premere il grilletto.

Si decide pertanto di fargli firmare la domanda di grazia con la conseguente commutazione della pena con l’espatrio forzato in Svizzera.
Cronicamente incapace a rassegnarsi a comandi di sorta, non accetta il disarmo e l’allontanamento coatto.
Alcune testimonianze sono concordi nell’affermare che con un ennesimo colpo di mano riesce a disarmare gli uomini che dovevano condurlo in terra elvetica.

Nel timore che voglia compiere vendette
e magari aggregare a sé altri ribelli, viene ricercato dagli uomini di Fortunato Fasana “Renato” e da questi catturato il 10 novembre 1944 ed immediatamente passato per le armi insieme a Giovanni Filippini e Stefano Villa, due giovani bresciani, appena giunti in zona e del tutto estranei alla vicenda.
Qualche ora dopo sarà la volta di altri tre della formazione Del Bello ad essere fucilati a Valgoglio, Valenza Belvisi Giovanni detto Pantelleria per via delle origini sicule e di due russi.

Per iniziativa personale del sig. Osvaldo Riccardi, il 15 maggio 2005 viene inaugurata una stele dedicata alla memoria di Angelo Del Bello e dei suoi compagni di sventura.
Sono rimasto molto colpito dall’uccisione dei tre giovani partigiani…ho fatto insieme ai vecchi del paese e al parroco, una piccola ricerca sull’accaduto in cui si parla  della fucilazione dei tre nascosti… uccisi dai soldati nemici che li trovarono… I loro corpi giacquero sul posto per cinque giorni congelati da rigido inverno”.
Questa la motivazione addotta dallo stesso Riccardi, ma purtroppo non risponde alla verità di come sono andati i fatti.

Fortunato Fasana (Renato), l’acerrimo nemico di Mino Del Bello, colui che con i suoi uomini annientò la formazione partigiana, diverrà dopo la guerra un apprezzato medico, prima in Cina e poi in Africa e partecipò in veste di conferenziere a diverse commemorazioni a ricordo di partigiani caduti.

Questi episodi, generalmente taciuti o rimossi per molti anni, hanno finito per alimentare la costruzione di miti che a loro volta sono rivelatori di altre contraddizioni o disagi.
Il mito dell’audacia, dello sprezzo del pericolo, l’istintiva concezione di “guerra di classe”, l’antifascismo estremizzato e soprattutto la sua barbara eliminazione; hanno contribuito a legittimare ideologicamente l’operato di Mino del Bello.
 
Note bibliografiche:
Giuliano Fiorani: “Bagatelle partigiane”;
Angela Salomone: “Valenza Giovanni. Belvisi. Un partigiano nelle valli bergamasche”;
Giulio Questi: “Uomini e comandanti”;
Angelo Bendotti: “Un processo partigiano”;
Circolo culturale Araberara “Lo chiamavano ribelle ma è un eroe, è forte e non teme sorella morte”
 
.in foto: partigiani

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