I tre italiani che hanno stregato l'America
Ci sono tre italiani fra i 102 destinatari della più alta onoreficenza del governo federale degli Stati Uniti d'America per i giovani ricercatori all'inizio della loro carriera

 
È accaduto lo scorso 9 gennaio, a Washington, quando il presidente uscente Barack Obama ha annunciato i vincitori dei premi «Pecase», «Presidential Early Career Awards for Scientists and Engineers», la più alta onorificenza del governo federale per giovani scienziati e ingegneri all’inizio della loro carriera da ricercatori.

È significativo che sia stata questa una delle ultime iniziative di un Presidente molto attento al progresso scientifico e all’innovazione tecnologica e quest’anno, a conferma dell’eccellenza dei ricercatori italiani all’estero, ci sono tre connazionali tra i 102 vincitori: Anna Grassellino, 35enne di Marsala, Marco Pavone e Guglielmo Scovazzi, entrambi torinesi, di 37 e 43 anni.  
 
Anna Grassellino ha studiato ingegneria elettronica a Pisa, prima di trasferirsi negli Usa per un dottorato in fisica all’università della Pennsylvania. Oggi dirige un team di 20 persone al Fermilab di Chicago.
«La mia ricerca riguarda le cavità superconduttive a radiofrequenza, una tecnologia utilizzata negli acceleratori di particelle di ultima generazione», spiega.
Il suo gruppo ha scoperto un meccanismo per triplicare l’efficienza del materiale superconduttore, il niobio, «dopandolo» con atomi di azoto.
«Questo consente di ridurre i requisiti di raffreddamento, abbassando i costi di costruzione e aumentando la performance energetica». 
 
Il progetto per il quale è stata premiata riguarda, appunto, la costruzione di un nuovo tipo di acceleratore in grado di produrre un fascio di particelle a struttura continua con un’intensità mai raggiunta finora.
L’obiettivo della Grassellino per i prossimi anni è di «spingere i limiti di questa tecnologia per studiare la fisica delle particelle, esplorando applicazioni anche in biologia e medicina.»  
 
Anche il lavoro di Marco Pavone, assistant professor di aeronautica e astronautica alla Stanford University, è multidisciplinare.
«Sviluppo algoritmi di Intelligenza Artificiale per rendere i sistemi robotici più autonomi, utili e sicuri», spiega.
Il suo laboratorio si occupa di auto senza conducente e aerei senza pilota, ma il progetto che gli è valso il premio è in collaborazione con la Nasa.
«L’obiettivo è munire sistemi aerospaziali, come navicelle o veicoli esplorativi, di Intelligenza Artificiale, affinché si adattino a situazioni ambientali estreme e imprevedibili». 
 
Il primo risultato è stato un robot ibrido in grado di muoversi in condizioni di microgravità su corpi celesti come asteroidi e comete.
Robot più grandi potrebbero essere utilizzati per una delle prossime missioni su Marte. Ad esempio, quella al cui progetto Pavone ha lavorato per conto dell’agenzia Usa dopo il dottorato al Mit di Boston, dov’era approdato con una laurea in informatica all’Università di Catania. 
 
Guglielmo Scovazzi negli Usa è arrivato invece qualche anno prima.
Dopo essersi laureato in ingegneria aeronautica al Politecnico di Torino, è volato in California per il dottorato in ingegneria meccanica a Stanford, a cui sono seguiti otto anni ai Sandia National Laboratories, in New Mexico, e infine l’incarico di associate professor alla Duke University, nella Carolina del Nord.

«La mia disciplina è la meccanica computazionale e mi occupo di simulazioni di sistemi complessi nell’ambito della meccanica del continuo», racconta.
Il suo laboratorio sviluppa algoritmi per studiare il comportamento dinamico di materiali solidi e fluidi. Le applicazioni sono svariate, tanto che Scovazzi è affiliato ai dipartimenti di ingegneria civile, ambientale e meccanica.
«Le simulazioni delle interazioni fluido-struttura sono fondamentali tanto per le turbine quanto per i dispositivi biomedici e i reattori nucleari». Il progetto per cui ha ricevuto il premio ha contribuito a rendere queste simulazioni più accurate, consentendo di modellare geometrie estremamente complesse. 
 
I tre ricercatori avranno occasione di incontrarsi in primavera, quando saranno convocati alla Casa Bianca per ricevere l’onorificenza da Donald Trump.
Quel giorno, stringendosi la mano, forse si chiederanno se avrebbero ottenuto gli stessi risultati in Italia.

Per rispondere, bisogna capire cosa li accomuna, oltre a capacità e determinazione.
Di sicuro la formazione italiana, senza distinzione di università, visto che si sono laureati in tre atenei diversi: uno al Nord, uno al Centro e uno al Sud.
Fondamentale è stato poi il dottorato Usa, il PhD, che ha permesso loro di applicare le conoscenze acquisite a problemi concreti. Infine, ciascuno ha ottenuto un finanziamento quinquennale dal governo Usa all’inizio della carriera da ricercatore. 
 
Sarebbe stato possibile in Italia? Purtroppo no.
I ricercatori italiani all’estero devono guardare avanti e continuare a correre, perché non possono permettersi rimpianti. 

Da lastampa.it
di Riccardo Lattanzi della New York University 
 
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