Contro i sacerdoti severiniani
di Leretico

Rispondo all’articolo “Sull'etica, sua forma attuale e sua concretezza” comparso sul giornale il 4 agosto 2016 perché in esso vengo chiamato in causa


Lo faccio perché ritengo importante rispondere ad alcuni concetti di fondo in quell'articolo che mi sembrano perniciosi.

Il mio allarme viene dal fatto che ogni volta che nella storia dell'uomo mortale qualcuno, qualche sacerdote, è salito sul pulpito per spiegare l’interpretazione autentica del verbo di un noto filosofo, da quel momento non sono venuti che guai.

Ma veniamo all’oggetto del contendere, ché di una contesa si tratta.

Premessa maggiore

Il pensiero dominante dell’Occidente è il nichilismo: l’atteggiamento in cui l’ente in quanto ente viene pensato e vissuto come un niente. Si può cogliere il fondamento nichilistico della nostra civiltà solo in quanto ci si conduca e mantenga nella testimonianza della verità dell’essere (Essenza del nichilismo – Adelphi 1982).

La struttura originaria della verità dell’essere non è un “prodotto teorico” dell’uomo (come singolo, o come gruppo sociale); e non è nemmeno “Dio”, o il prodotto di un dio. Ma è il luogo, già da sempre aperto, della Necessità e del senso originario della Necessità. Solo all’interno di questo luogo può apparire la necessità che l’essenza dell’Occidente sia il nichilismo. Solo all’interno della struttura originaria della Necessità può apparire la struttura dell’alienazione essenziale dell’Occidente. [...]

La struttura originaria” tenta appunto di esprimere per la prima volta, ma nel modo più determinato e concreto, l’inconscio che sta alle spalle della stessa struttura inconscia dell’Occidente, il sottosuolo che giace ancora più in fondo del sottosuolo costituito dal pensiero fondamentale in cui ormai tutto viene pensato e vissuto dalla civiltà Occidentale. [...]

Il mortale è la contesa tra il luogo della Necessità e la persuasione, cioè la volontà – che fa irruzione in quel luogo -  che la terra sia la regione sicura. La terra; cioè la totalità delle cose, umane e divine, che vengono e vanno: che entrano nel cerchio dell’apparire della Necessità” ed escono da esso. La persuasione che la terra sia la regione sicura isola la terra dalla Necessità, la separa dal destino.” (Introduzione a “La struttura originaria” – Adelphi 1981).

Sintetizzando possiamo affermare: il destino della verità, la struttura originaria, si trova su un piano diverso, essendo un luogo diverso, rispetto a quello della terra isolata. La verità, il destino, essendo sfera più ampia, contiene la terra isolata dalla verità, la vede isolata ed è isolata per effetto del nichilismo. Il mortale è il luogo della contesa tra queste due sfere, questi due piani. Il fatto che la terra isolata esista, appaia, significa che doveva, e deve, essere e apparire per come è e appare.

Premessa minore

Il tramonto (e il tramonto definitivo) del contrasto tra il destino della verità e l'isolamento della terra è per la verità un problema autentico.
In ciò che il linguaggio riesce attualmente a testimoniare della verità non appare l'impossibilità di tale tramonto - cioè l'impossibilità dell'oltrepassamento della contraddizione in cui quel contrasto consiste, cioè l'impossibilità dell'accadimento della salvezza della verità, intesa appunto come tramonto del fondamento dell'errare.

Appare invece l'impossibilità che il finito si apra sino al punto di diventare l'apparire infinito e compiuto del Tutto. (Studi di filosofia della prassi - Adelphi 1984 - Postilla 44 pag. 364)

Ma si tratta anche di comprendere che il senso che un'epoca possiede dell'"esser cosa" non è semplicemente un "concetto", un semplice "pensiero", una mera "contemplazione": all'opposto, nell'accadimento del mortale il senso dell'"essere cosa" è l'originariamente voluto: è la volontà del mortale che stabilisce il senso dell'"esser cosa" delle cose: è la volontà di potenza che, di volta in volta, lungo la vicenda dell'accadimento del mortale, ha presentato come evidenza originaria il senso che la "cosa" andava di volta in volta prendendo.
È sì accaduto che la volontà di potenza fosse interpretata come "contemplazione"; ma l'anima della "contemplazione" di cui il mortale è capace è la volontà di potenza che, nella sua forma originaria, isola la terra dal destino della verità, e predispone le cose ad essere pensate come ciò che esce dal niente e vi ritorna. (Studi di filosofia della prassi - Adelphi 1984 - Appendice pag. 371)

In sintesi: il nichilismo è il modo di intendere il senso della cosa. Se essa è pensata come oscillante tra l'essere e il nulla (senso greco) allora non può che esistere il nichilismo. La volontà di potenza vuole la cosa come oscillante, quindi dominabile. Ma riesce infine a dominarla? No, perché la cosa, essendo eterna, ossia non potendo oscillare tra essere e nulla, non può essere nemmeno dominata. Nonostante ciò il mortale crede fermamente nel volere e non si rende conto, perché il vedere vero è nel suo inconscio più profondo, di volere l'impossibile. Ma potrebbe il mortale non volere? Potrebbe con una decisione, ossia con la volontà, non volere? Certamente no! Se è così allora il mortale, ripeto e sottolineo il mortale, può solo volere e rispetto al destino della verità non può fare nulla, proprio perché il fare sarebbe ancora una volta una volontà e per questo una contraddizione rispetto alla verità.

Prima conclusione: il decidere

Come decidere, cosa fare per uscire dalla follia essenziale? (La follia essenziale è il nichilismo, che isola la terra dalla verità, che crede che l'essere sia nulla - l'affermazione dell'inciso tra parentesi è mia).

Ebbene, anche a costo di deludere, debbo dire che il senso del "decidere" appartiene al senso greco della "cosa" (ossia al nichilismo - l'inciso tra parentesi è mio).

Infatti, quand'è che noi decidiamo? Quando ci impadroniamo di una cosa, strappandola dal suo contesto. Marx non ci ha detto infatti che il "lavoro" - ossia lo spazio in cui si concreta il decidere - è un rompere il "legame immediato" che tiene unite le cose?

Ma "decidere" vuol dire appunto rompere il nesso immediato che lega le cose. "Decidere" significa de-caedere, ossia "tagliare". Il "de-cesso" è la morte; il decesso nomina il taglio della vita. Decidere vuol dire tagliare, separare.

Ma la separazione operata dal decidere è la stessa separazione che taglia il legame che unisce la cosa all'essere e la fa oscillare senza radici, tra l'essere e il niente. Il decidere appartiene all'essenza della follia estrema dell'Occidente.

Quindi non si può dire come dobbiamo "decidere" per uscire dalla follia.
Dovremo allora incrociare le braccia e restare ad attendere quello che viene dal cielo? No: è una decisione anche questa. Dobbiamo ucciderci? No: è una decisione anche questa.

Con queste considerazioni siamo sospinti a pensare l'accadimento storico in modo abissalmente diverso da quello al quale noi siamo abituati, cioè come una dimensione in cui tutti noi ci diamo da fare e decidiamo.
Ma intanto alla domanda si deve rispondere così: se l'uscita dalla follia, se la liberazione dall'alienazione fossero determinate da una decisione (cioè da un'"azione"), allora tale uscita e liberazione sarebbero inevitabilmente un permanere nella follia. (Studi di filosofia della prassi - Adelphi 1984 - Appendice pag. 378)

Non è possibile uscire dalla follia dell'azione, mediante un certo tipo di azione. Ma è anche possibile lasciarsi sfuggire il senso autentico dell'affermazione che il rifiuto di ogni verità assoluta, da parte della cultura moderna e contemporanea, determina lo svuotamento di senso delle categorie del "valore", del "diritto", della "giustizia", sì che l'unico senso possibile della parola "verità" rimane quello della capacità pratica di imporsi sulle forze contrastanti. [...]
Al di là dei confini della follia estrema, già da sempre si apre il destino della verità, dove la verità non è ciò che deve "essere messo in pratica" , ma è l'apparire dell'alienazione del "mettere in pratica". Qui l'apparire del destino della verità è la stessa "volontà" (nel significato inaudito che questa parola possiede al di fuori dell'alienazione dell'Occidente e del nichilismo) che vuole il destino. (Studi di filosofia della prassi - Adelphi 1984 - Appendice pag. 390-391)

In sintesi poiché incrociare le braccia è un fare, o volere, così come lo è il decidere di non incrociarle e quindi di operare, all'uomo mortale non resta che muoversi nel volere, in cui la verità creduta non è la verità, proprio perché creduta. La verità invece è da sempre il destino, mentre nella cultura moderna contemporanea è, e non può essere che così, capacità pratica di imporsi, cosa che non è sicuramente verità. Ciò vuol dire che all'uomo mortale non rimane che continuare a volere, continuare a cercare di imporsi, anche dopo aver capito con grande sforzo che il suo volere è comunque contraddizione. Chi crede, con l'adozione di una interpretazione, di poter usare la verità come spada di dominio, non è nella verità. Compie invece un doppio errore: il primo credendo di poter usare la verità come strumento, il secondo credendo che, imponendosi sull'avversario, si riesca a far prevalere la verità.

Seconda conclusione: l'etica

Se abbiamo capito, per quanto sopra, che l'uomo mortale non può non volere, come da anni vado affermando, allora possiamo dire che ogni decisione, ogni azione del mortale è etica, cade nell'ambito dell'etica, se etica vuol dire "ramo della filosofia che si occupa di qualsiasi forma di comportamento (gr. ἦθος) umano, politico, giuridico o morale". E ogni azione è un volere.
Da qui, per esempio, potremmo concludere che nel mondo del mortale lo "scegliere" di non uccidere lotta contro lo "scegliere" di farlo. Se prevale il primo "scegliere" allora accadono (crediamo che accadano) certe cose che invece non accadono (crediamo che non accadano) se prevale il secondo.
Siccome l'uomo mortale non può non volere allora è costretto a scegliere, anzi sceglie in ogni caso, anche se è consapevole della non verità connessa a qualsiasi scelta egli possa fare. Non uccide, ma non è nella verità. E non lo sarebbe anche se decidesse di uccidere.

E ora veniamo al passaggio più sottile e anche più arduo per i più fanatici: posso cambiare il mio agire dopo aver conosciuto cosa intende Severino per verità? Influisce la filosofia severiniana sul mio fare, sull'etica, dal momento che vengo a conoscere la costruzione del suo discorso? La risposta dello stesso Severino è negativa. Non può! Scrive Severino: "Non è possibile uscire dalla follia dell'azione, mediante un certo tipo di azione". 

E allora chiunque scriva qualsiasi cosa basandosi sulla filosofia severiniana e lo facesse per controbattere un'altra volontà, se usasse le parole di Severino per affermare, per esempio, il valore positivo dell'uccidere in nome della maggiore potenza, cadrebbe in contraddizione perché userebbe tale scrivere (un'azione) mettendolo sul piano della volontà (un altro tipo di azione), spacciandolo per verità.
L'errore non sarebbe nel citare Severino ma nel pretendere che solo per questo tale scrivere sia la verità.
Il discorso di Severino invece parla dal piano del destino della verità e solo se ci si sforza di mettersi su quel piano si riesce a intuire.
Se malauguratamente ci si mettesse invece sul piano della volontà, si perderebbe immediatamente il valore di quell'intuizione e si cadrebbe proprio nella contraddizione che con tanta volontà si vorrebbe togliere.

Infatti ogni dire, ogni scrivere è una volontà, ma c'è chi ammette questo fatto e chi no, illuso con arroganza di avere in man
o la veritá (perché tutto viene da lì, dall'arroganza come deleteria forma di volontà), trasformandosi da severiniano a "sacerdote severiniano". Si diventa tali, facendo questa grave confusione, tutti tesi all'apostolato, a combattere con violenza chi si oppone al pseudo dogma severiniano, disconoscendo così totalmente proprio la filosofia di Severino "ab origine".

E si intenda bene: qui, il citare a mia volta Severino, il basarmi sulla sua filosofia, serve non a far prevalere la mia verità su quella di altri, ma proprio ad accettare la contesa come volontà tra le volontà, sapendo che tale contesa accade nella non verità, tra non verità, su quel piano e non su quello del destino.
In pratica sono consapevole, grazie a Severino, che il mio contrappormi qui al sacerdozio severiniano è una volontà, quindi non è verità, ma nemmeno ho mai pensato e preteso che lo fosse, e questo sin dall'inizio. Con tale consapevolezza si evita la contraddizione. I sacerdoti severiniani invece spacciano il loro discorso per verità assoluta, per questo sono sacerdoti ed è qui dove si annida il loro difetto originario.

Severino non ha mai incentivato l'omicidio oppure la legge del più forte.
Chi lo interpreta così è un sacerdote che da un lato strumentalizza la sua parola e dall'altro tende a renderlo divino, proprio per dar forza soprannaturale alla propria strumentalizzazione.
La sua filosofia non è apologia della violenza, come qualcuno traduce e ci vuole surrettiziamente far intendere. Così facendo permette che la struttura originaria decada a volontà, al solo scopo di dominare volgarmente di volta in volta l'interlocutore di turno.
Essa invece è tutt'altro: comprensione dell'incontrovertibile e, contemporaneamente, consapevolezza della contraddizione in cui vive l'uomo mortale.

Severino stesso scrive contro i sacerdoti: "Ma è anche possibile lasciarsi sfuggire il senso autentico [che i sacerdoti severiniani non capiscono e si lasciano sfuggire] dell'affermazione che il rifiuto di ogni verità assoluta, da parte della cultura moderna e contemporanea, determina lo svuotamento di senso delle categorie del "valore", del "diritto", della "giustizia", sì che l'unico senso possibile della parola "verità" rimane quello della capacità pratica di imporsi sulle forze contrastanti".
Ed è purtroppo questo senso inautentico della verità che perniciosamente leggiamo in certi articoli che mi chiamano in causa.

Leretico
 
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