Davigo e la fidanzata del prete
di Leretico

Piercamillo Davigo, ma soprattutto una giustizia ritenuta giusta solo perchè segue pedissequamente delle procedure, nel mirino oggi de Leretico



Un famoso articolo di Leonardo Sciascia del gennaio1987 intitolato "I professionisti dell'antimafia" potrebbe prestarsi facilmente a una declinazione diversa, ma non meno evocativa, di quella che ebbe quando uscì: così come là si indicavano i difetti di chi faceva, o permetteva, carriere in nome della lotta alla mafia dimenticandosi di rispettare le regole del diritto, così oggi potremmo dire ugualmente di chi ha fatto carriera in nome della lotta alla corruzione senza aver ottenuto pragmatico risultato.

Circa un mese fa, infatti, Piercamillo Davigo, con la fronte ancora umida dell'acqua battesimale per la nomina a Presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, sparava a zero sui politici dichiarando fermamente che questi ultimi "non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi".

È strano come un magistrato salito alla ribalta per la lotta alla corruzione si sia reso autore di un autogol così clamoroso.
In un solo colpo è riuscito a dichiarare da un lato il fallimento totale di tutta l'avventura giudiziaria di Mani Pulite e dall'altro a fare di tutta l'erba un fascio accusando genericamente la politica senza distinguere tra onesti e ladri di polli, tra amministratori sani e funzionari corrotti.
Certo è difficile difendersi dai propri difetti soprattutto quando tra questi si conta la spocchia, e ancor più quando la si frequenta da troppo tempo.

In ogni caso, l'aver fatto carriera sull'onda di quell'inchiesta
, e forse anche sulla pelle di tante vittime collaterali, non è la colpa più grave di Piercamillo Davigo.
Non lo è nemmeno la sua continua evocazione di un mondo iper-corrotto, utile agli scopi di un "Professionista dell'anticorruzione" per giustificare la necessità di risorse extra-ordinarie nonché della propria presenza.

Quello che davvero risulta impossibile da accettare è la sua idea di giustizia, la sua idea di come questa contenga in sé, e non fuori di sé, gli strumenti per correggere i propri errori, inaccettabile la sua idea sacerdotale del processo.

Pensando al recente ventottesimo anniversario della scomparsa di Enzo Tortora, noto giornalista e conduttore televisivo, morto il 18 maggio 1988 a soli 59 anni dopo aver subito una vergognosa tortura giudiziaria e mediatica a causa di un'ingiusta accusa di associazione camorristica e traffico di droga, sull'onda del ricordo e dell'indignazione mi è venuta voglia di rivedere quell'intervista che Antonello Piroso fece a Piercamillo Davigo nella trasmissione "Niente di personale" il 27/02/2011 andata in onda su La7 (la potete facilmente trovare su YouTube).

"Se avesse una figlia di sei anni, l'affiderebbe ad uno che è imputato di pedofilia con l'argomento che c'è la presunzione di innocenza, perché l'accompagni a scuola?" chiede Davigo a Piroso spiegando che la presunzione di innocenza dovrebbe valere solo nell'ambito delle regole processuali e non nelle relazioni sociali.
Ovviamente la risposta alla domanda è negativa per chi ha buon senso, e serve qui a preparare il terreno ad una domanda successiva e determinante che Piroso conserva saggiamente per qualche momento.

Esattamente dopo il minuto 16 e 55 sec. dell'intervista, Piroso pone una domanda diretta sul caso Tortora: "Non colpevole lui, non colpevole chi lo accusò, lo inquisì in modo 'disinvolto', lo processò in primo grado. Pari e patta. Giustizia giusta?".

Non è ancora il momento per l'affondo.
Mentre Davigo si dilunga tentando di intuire dove Piroso lo vuole portare con una domanda del genere, quando finalmente la verbosità del magistrato lascia il posto alle parole del giornalista, ecco la domanda risolutiva: "Ora le chiedo, lei ha detto: la magistratura italiana ha un sistema per cui abbiamo i magistrati più sottoposti a procedimenti disciplinari, vuol dire che il sistema funziona e sono d'accordo con lei, però ribaltando il paradosso che lei mi aveva rivolto su mia figlia accompagnata a scuola da un pedofilo, o condannato come tale in primo grado, ma presunto innocente nel comune sentire fino alla Cassazione, lei si farebbe giudicare da un magistrato il quale palesemente, anche se dopo non è intervenuta una sanzione particolarmente grave da parte del CSM, ha in maniera manifesta fatto un'indagine nella maniera in cui è stata fatta nel caso specifico sul caso Tortora, lei si sentirebbe tranquillo?".

A questo punto Davigo si sente accerchiato
e per liberarsi dalla stretta della contraddizione in cui rischia di cadere, decide di andare all'attacco, come è uso fare dai tempi della inchiesta delle inchieste che lo ha reso noto al grande pubblico.

Ecco il dialogo tra Davigo e Piroso:

Davigo: allora, lei mi sta chiedendo se mi farei giudicare da un magistrato che ha commesso un errore? Certamente sì, perché vede non conta la persona contano le regole.
Quando io andavo a catechismo mi hanno insegnato una cosa facile, che dovrebbero aver insegnato a tutti: il fatto che il sacramento sia valido non dipende dal fatto che il ministro sia degno, dipende dal fatto che abbia rispettato le regole liturgiche.
Se il sacerdote ha detto messa secondo il messale romano, la comunione vale anche se il prete ha la fidanzata. Bene? Siamo d'accordo su questo no?

Piroso: si.

Davigo: il problema non è se uno una volta ha sbagliato, perché siamo tutti esseri umani e, gliel'ho detto prima, facciamo uno dei lavori a più alto rischio di errore.
Il problema è: mi faccio giudicare da un magistrato che rispetta le regole. Per fortuna se non rispetta le regole ci sono gli strumenti per fargliele rispettare, questa è la questione...

E noi siamo d'accordo con Davigo? Assolutamente no.
E non lo era nemmeno Leonardo Sciascia che così bene aveva dipinto il grave pericolo di una ritualizzazione sacerdotale della giustizia e del processo nel suo libro "Il contesto" (1971).

In quelle pagine fa parlare un arrogante Presidente della Corte Suprema di nome Riches, tutto intento a paragonare il processo alla transunstanziazione, il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo:
“Il sacerdote può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dall’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione, il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo…”.

E ci è venuto il paragone con Davigo anche troppo facilmente.
Per noi la persona conta e sappiamo che l'errore avviene anche se si seguono le regole. E vorremmo che quando una persona compare davanti al giudice, quest'ultimo pensi ogni istante di avere di fronte un essere umano che, se innocente, non potrebbe mai recuperare da un giudizio sbagliato.

Vorremmo scardinare l'idea che il processo è esente da errore
solo perché si pensa, come Davigo, che è nel rito del suo svolgimento il mezzo del suo auto-emendarsi.
Vorremmo affermare che il processo non è valido se l'imputato condannato è innocente.

Se il giudice è come quelli che hanno giudicato Tortora, ossia come i preti con la fidanzata, la comunione non è valida, la transunstanziazione non può avvenire, con buona pace di Piercamillo Davigo.
Se non si riesce ad andare al di là delle regole per intuire la possibile innocenza di un uomo, nulla potrà arginare l'arbitrio e l'ingiustizia, nulla potrà mai fermare il vero e ultimo fallimento di Mani Pulite: il prevalere delle carriere di giudici fin troppo protagonisti mentre soccombe malamente la giustizia.

Leretico

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