Non solo «Immaginare il sacro»
di Leretico

Sabato scorso, 19 marzo 2016, davanti a un pubblico numeroso e in un certo senso inaspettato, si è aperta una mostra importante per Vestone e la Vallesabbia: "Immaginare il sacro"


Un incipit con belle parole del vice-presidente della neonata associazione "Via Gliesenti 43" Gianfausto Salvadori e del professor Vasco Prati, già Presidente della storica associazione Artisti Bresciani.
Introduzione ad un tema, indubbiamente impegnativo come quello del sacro, la cui declinazione nella mostra vestonese tocca alcuni artisti bresciani del Novecento.
Nomi importanti, fatti rivivere per il visitatore capace di ascoltare, osservando, la musica della bellezza.

In me, conoscitore vago dell'arte pittorica, viene da giustapporre la parola "sacro" alla parola "arte", poi ne cerco invece le reciproche relazioni: ne viene che "sacro" contiene la radice indoeuropea SAC-SAK-SAG che indica l'attaccare, l'aderire, l'avvincere, il portare con sé la divinità; radice unita alla radice ariana AR, che significa il mettersi in moto, il muoversi.

SAC-AR diventa SACER e poi SACRO, nell'ultima versione della lingua romanza italiana.
"Sacro" significherebbe in sintesi ciò che si muove e quindi trasforma il portatore, l'aderente alla divinità.
Uno scontro insomma, che richiama quell'immagine di "squartamento" presente in tutti i racconti fondativi delle più diverse civiltà antropologiche dell'orbe terraqueo. All'inizio c'è sempre un fratturarsi del Dio, un corpo che si fa in brani, spezzato. Una distruzione derivante da chi promuove il movimento (AR) contro l'inflessibile (SAC) che tenta di resistere.

La vita, poiché vuole essere vita, provoca la distruzione del Dio, dell'inflessibile.

E insieme provoca il sentimento dell'obbligo di restituzione: il sacrificio. Quest'ultimo è sempre un restituire ciò che si è colpevolmente tolto al Dio: sacrificare è infatti il sacrum-facere, ossia il rendere sacro ciò che, con umile pentimento, si vuole restituire a Dio.

La radice AR si trova nella parola "arte", traduzione possibile dal greco "techne". La parola "arte" implica inoltre il concetto di "poiesis", ossia di "produzione": un fare che oggettivizza l'espressione della tecnica, l'arte appunto. Ma "poiesis" è anche poesia, parola in cui si manifesta la potenza più evocativa e creativa dell'uomo.

Se dunque mettiamo a confronto la parola "arte" con la parola "sacro", ne viene l'idea di un conflitto tra l'uomo, massima espressione tecnica, artistica, e il divino, quell'immutabile inflessibile a cui è stata strappata, da cui si è guadagnata con efferatezza, la vita. Con l'arte si restituisce, si sacrifica, si rende con sofferenza a Dio ciò che gli è stato sottratto.
E così, nell'arte di "Immaginare il sacro", troviamo le due facce di questa dinamica: la sofferenza del soggetto ritratto, da un lato, nel sacrificio dell'autore, dall'altro.

Ma la mostra vestonese non è solo rivolta al sacro, è anche espressione di religiosità. Ci sono quadri bellissimi come quelli di Giovanni Tabarelli o Oscar Di Prata che manifestano pienamente tale idea.
Siamo nel religioso, non nel rapporto diretto con Dio, espresso dal sacro. Siamo nella relazione indiretta, mediata, articolata nel legame che unisce i gruppi, la comunità. È un vivere insieme lo spirito del divino, all'opposto dello spirito mistico che investe l'eremita nel suo immediato e doloroso incontrare Dio.

"Religione" è parola che viene dal latino: RE-LIGARE. Composta dalla particella RE, la quale accenna alla frequenza, e dal verbo LIGARE, tenere insieme. "Religione" è ciò che tiene insieme la comunità attraverso la frequenza, il rito.
La religione è strumento, medium, con cui la comunità parla con Dio, e Dio risponde, "rivela" attraverso il "verbum" il suo Vangelo, ossia la Verità.
Tuttavia le due diverse nature, del "sacro" e della "religione", sembrano testimoni di un'ulteriore evoluzione che parte da quella radice AR e da ciò che in essa alberga sin dall'inizio: il movimento, la trasformazione.

Persino Dante e Manzoni, nonostante abbiano sottomesso la loro "arte" alla superiore incommensurabile Rivelazione, non rifiutano il mezzo espressivo della "poiesis", della poesia, anzi ne fanno cosa straordinaria.
Non sanno che il movimento, il divenire in quanto "poiesis", l'arte come tecnica, sono destinati a distruggere definitivamente quell'Immutabile a cui, nella tradizione, si rendeva merito con il sacrificio.

La modernità che passa per ogni anfratto, con folate di fredda violenza,
entra anche in "Via Glisenti 43" e noi la sentiamo e ci aggrappiamo alla bellezza che ivi abbiamo intravisto come un faro nel buio.
Ci aggrappiamo sperando regga il peso dell'angoscia, quella sì ineluttabile, che si intravede terrea al di là del confine che ci separa dal paradiso della tecnica. Scrive Dostoevskij: "la bellezza salverà il mondo", e un po' ci crediamo, ci vogliamo credere, se passando ci soffermiamo in "Via Glisenti 43".

Leretico
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