All'assassino piace la televisione
di Leretico

Quando ho saputo che uno dei presunti assassini dei coniugi Seramondi era comparso in un intervista televisiva, ho fatto immediatamente un parallelo con il delitto di Sara Scazzi, l’adolescente uccisa dalla cugina Sabrina per rivalità amorosa in quel di Avetrana in provincia di Taranto


La connessione mi è balenata quando ho notato la sicurezza, la spocchia, la facilità con cui il pachistano Muhammad Adnan si faceva intervistare dai giornalisti di Teletutto prima di essere individuato e accusato dell’omicidio di Francesco Seramondi e di sua moglie in complicità con Singh Sarbjit, di origine indiana.
La stessa sicurezza spocchia e facilità l’avevo notate a suo tempo in Sabrina Misseri durante le sue interviste alle varie televisioni nazionali prima del suo arresto.

In entrambi i casi, dicevo, la televisione è stata protagonista: ha partecipato alle indagini, ha intervistato i presunti assassini quando ancora nessuno sospettava di loro, a parte gli inquirenti evidentemente.
Si è detto da più parti che ad Avetrana si fosse realizzato lo scambio perfetto tra mondo televisivo e mondo reale, che i protagonisti si fossero immersi in un “Truman show”, tragico negli effetti per la vittima e paradossale per le assassine condannate due volte: la prima a tornare nella vita reale, la seconda a rispondere a giudici molto concreti e convinti della loro colpevolezza.

Anche a Brescia mi è sembrato di vedere lo stesso tremendo “Truman show”: due uomini stranieri che tornano tranquillamente a casa dopo un duplice omicidio, non senza che uno dei due ritorni sulla scena del delitto per controllare la situazione, confermando il più classico dei luoghi comuni che recita di cercare l’assassino tra gli spettatori curiosi che si affollano intorno alla scena del crimine.

Successivamente l’intervista a Teletutto rilasciata da Muhammad Adnan, deve essere stata una tentazione irresistibile per chi, come dicevo prima, confonde la vita reale con quella virtuale della televisione.
Ma l’elemento che veramente fa la differenza, tralasciando la sua capacità disinvolta di tenere la scena, è l’assenza assoluta in lui di vergogna.

Lo spiega bene Marco Belpoliti nel suo libro intitolato “Senza Vergogna” (2010), quando chiama a testimone la psicoanalista Anna Maria Pandolfi per rinforzare il concetto che il sentimento della vergogna, così come l’abbiamo conosciuto, sarebbe scomparso.
Nell’era della televisione e della rete delle reti, in cui “dominano voyeurismo ed esibizionismo”, specchi di un “narcisismo fragile e povero”, “l’essere visti e conosciuti o anche solo guardati, quale che sia il prezzo che per ciò si paga, sembra essere l’unico rimedio a un pericolo vissuto di non valore o addirittura appunto di non esistenza”.

La vergogna della società contemporanea sarebbe quindi una “vergogna amorale”, di superficie, legata all’etica del successo, al conformismo di fondo che tende paradossalmente all’omologazione, mentre in superficie c’è l’inno ipocrita e inconsistente al valore dell’individuo.

Il valore della vergogna, connesso al valore della comunità in cui l’individuo esprime se stesso e in cui trova di fatto la sua dimensione, sarebbe irrimediabilmente perduto.
E questa perdita ci consegnerebbe una società senza vergogna, una società che tende all’atomismo, una società che preme sempre più per lo sfaldamento di ogni legame, di ogni nesso.

Insieme alla vergogna c’è sempre il senso di colpa, ma i due sentimenti vanno in direzione opposta: “il senso di colpa è qualcosa che si sviluppa dentro di sé ma è diretto verso l’esterno” e si manifesta sotto forma di scuse, “il senso di vergogna nasce dalla consapevolezza dello sguardo degli altri ed è diretto verso l’interno, verso il sé”.

Ecco perché per Belpoliti la vergogna scompare quando si cancella “l’altro” e con lui perde consistenza quella comunità che guardando, appunto, fa nascere nell’individuo il genuino sentimento di vergogna.
La prevalenza della società dell’immagine diventa segno della scomparsa del concetto dell’altro, del prossimo, della responsabilità verso un altro essere umano semplicemente perché egli esiste.

Essendo la vergogna strettamente legata all’universo linguistico, nel mondo contemporaneo fatto di immagini di Instagram e di Facebook, di Internet e della televisione non c’è più spazio per le emozioni complesse come la vergogna, ma solo campo libero per l’appiattimento emotivo.
Quando poi si perde anche il senso di colpa, scompare completamente l’individuo ed appaiono al suo posto, moltiplicati all’infinito da tutti i media, i loschi figuri di Brescia, le assassine di Avetrana.

Forse è questo il destino che ci è riservato, che le immagini da cui siamo continuamente bombardati riescano a sostituirsi definitivamente al nostro pensiero e alle nostre emozioni, privandoci di quell’umanità che ci dovrebbe distinguere dagli assassini i quali non sanno né cosa sia la vergogna tantomeno cosa sia il senso di colpa.

Leretico

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