Il maglio del rame e i sapori di una volta
di Guido Assoni

La fucina del rame sul torrente Abbioccolo era una delle strutture dedite alla lavorazione del ferro censite a Lavenone dal Catasto Lombardo Veneto del 1852


Il proprietario era uno dei capisaldi della metallurgia valsabbina, Maffeo Gerardini, tra l’altro grande proprietario terriero.
L’impianto, a pianta rettangolare allungata ad un piano, con larghe aperture nel tetto per consentire la fuoriuscita dei fumi, risale sicuramente agli albori del XVII secolo come segnalato nel Catastico Bresciano del 1609 redatto da Giovanni da Lezze per il Senato della Repubblica Veneta.

Invero le date che si possono tutt’ora scorgere sul supporto in pietra del maglio principale (1736) ed all’esterno della fucina (1779) lasciano presupporre un successivo rifacimento o una ristrutturazione dell’impianto che ancor’oggi rimane una delle ultime testimonianze di un pezzo di cultura artigiana e di un modo di lavorare che, sfruttando le possibilità del luogo, per secoli riuscì a trarre ricchezza da territori aspri e svantaggiati sotto il profilo agricolo.

Sono rimasti ancora visibili i magli, le grandi cesoie (scesure) e tenaglie per afferrare il metallo (gavade), il grosso anello di ferro in cui viene infilato l’albero portante alla sua estremità il maglio (boga), la forgia, la mola di pietra per la molatura degli incudini dove appoggiava il pezzo sotto la mazza battente del maglio, il sistema di pulegge di trasmissione del moto rotatorio.

Purtroppo la parte esterna della fucina ha risentito maggiormente dell’incuria successiva alla morte di uno degli ultimi proprietari, Assoni Giuseppe (Pepino) 1928-1997.
L’attuale proprietà si auspica di poter inserire questa vecchia fucina in un percorso museale della Valle Sabbia magari stipulando convenzioni o con il Comune di Lavenone o con la Comunità Montana di Valle Sabbia o con la Regione Lombardia.

Attualmente è ancora visibile il bottaccio (botas) ovvero il bacino per la raccolta delle acque che poi venivano incanalate e convogliate sulle ruote motrici, le paratoie o chiaviche in legname per il controllo delle acque (ősere), i ruderi delle ruote idrauliche e della tromba idroeolica (tina de l’ora), i canali di convogliamento e scolo delle acque (sariőle), la griglia per impedire il passaggio di elementi galleggianti (rastrelera).

La fucina così come conservata, permette una facile lettura dei processi lavorativi che vi si svolgevano.
La canalizzazione giungeva alle ruote idrauliche ed alla “tina de l’ora”, una cassa circolare in pietra in cui precipitava dell’acqua sviluppando un forte getto d’aria che, convogliata attraverso un tubo, ravvivava in continuazione il fuoco.

Ora facciamo un passo indietro e torniamo all’anno 1857
quando l’imponente crisi che colpì il settore metallurgico costrinse i Gerardini a chiudere la fucina sull’Abbioccolo riconducendola per anni a magazzino per il carbone (carbunil).

Solo verso la fine dell’ottocento vi fu una ripresa della lavorazione e il maister Daniele Assoni, avo degli attuali proprietari, emigrò a Lavenone dalla vicina Val Trompia (Sarezzo) per lavorare nell’impianto dei Gerardini.

Correva l’anno 1907 allorquando Teresina e Maddalena Gerardini vendevano l’impianto e le sue pertinenze alla famiglia Bottazzi, ramai di antica tradizione che avevano la propria sede in via Sostegno a Brescia.

Costoro riconvertirono la vecchia fucina del ferro alla fabbricazione di paioli di rame per la polenta, di grandi caldaie (caldere) per la lavorazione del latte che potevano raggiungere il peso di un quintale e di altri strumenti di uso domestico come le leccarde, ovvero quei recipienti con lungo manico debitamente stagnati all’interno e destinati a recuperare il grasso e il burro che colava dallo spiedo durante la cottura.

Parliamo dello spiedo tradizionale che veniva posto accanto al fuoco a legna e non già ai moderni manufatti a tamburo funzionanti a carbonella o a cottura elettrica.

La struttura della fucine del rame
non si differenziava sostanzialmente dagli altri impianti che lavoravano il ferro.
La principale differenza era rappresentata dalla forma del maglio battirame a testa allungata che ricorda la proboscide dell’elefante.
Questa forma permetteva al paiolo di innalzarsi ad ogni battuta del maglio senza che il manico di quest’ultimo interferisse nell’operazione.

Nella forgia, anziché arroventare il ferro, si fondevano rottami di rame.
Il liquido ottenuto era scodellato con grandi mescoli di ferro in crogioli di refrattario per formare i masselli.
Le dimensioni e la massa di questi fondelli erano proporzionali al paiolo che si doveva ricavarne.

Una volta induriti, ma ancora incandescenti e ad una temperatura di 850 gradi centigradi venivano posti sotto la mazza battente.
Alternativamente riscaldato e rilavorato più volte, con ripetute battiture il massello si assottigliava e prendeva una forma a scodella.
L’abilità dei magliari consisteva nell'ottenere contenitori il cui fondo fosse più spesso al centro e man mano si assottigliasse verso le pareti.
L’estremità del maglio finiva a superficie convessa, mentre l’incudine ove veniva posto il fondello per essere battuto, era incavo.

Una squadra di 4/5 magliari, muniti di grandi tenaglie e coordinati dal maestro forgiatore, potevano lavorare una massa di metallo che poteva raggiungere anche quattro quintali di peso e realizzare in una sola volta anche 15/20 paioli.
I paioli così realizzati venivano poi bordati e provvisti di manico per opera di calderai esterni.

Nei secoli scorsi, i nostri avi cucinavano nelle pentole di rame perché questo metallo ha una capacità di trasmissione del calore elevatissima e, di conseguenza, uniforme, consentendo ai cibi di cuocere nel migliore dei modi.
L'omogenea distribuzione del calore permetteva una cottura che non aggrediva i cibi, preservandone le proprietà nutrizionali e le caratteristiche organolettiche.
Inoltre, i cibi non si attaccavano al fondo.

All'inizio del '900 fu l'alluminio,
più leggero ed economico, "più futuristico", a sostituire in molte famiglie le pentole di rame.
Circa 40 anni fa ha fatto la sua comparsa la pentola in acciaio inox e molto più recentemente le pentole in lega.

Rimestando, si cuoce tutto lo stesso, è vero, ma la cottura non sarà mai uniforme, perché le notevoli variazioni di temperatura influiscono negativamente sul risultato finale.
Con il rame, invece, il calore avvolgeva ed accarezzava il cibo.
La cottura era più rapida e rispettosa dei profumi e dei sapori.
Appunto i sapori di una volta.

Guido Assoni

Riferimenti bibliografici
Catastico della Città di Brescia et suo territorio – Giovanni Da Lezze – 1609;
L’arte del ferro in Valle Sabbia e la famiglia Glisenti – Ugo Vaglia – 1959;
Quei laboriosi valligiani. Economia e società nella montagna bresciana tra il tardo seicento e gli anni post unitari – Giancarlo Marchesi – 2003;
Duemila e … non più mille – Enzo Bazzoli – 1994;
Viaggio all’interno di Lavenone – Michela Bonardi/Gian Fausto Salvadori – 1994;

150629_fucina_lavenone.JPG 150629_fucina_lavenone.JPG