17 Aprile 2015, 06.53
Gavardo Valsabbia
Lettere

Caro Mauro,

di Pino Greco

sull’invito che mi hai mandato per “Qui tra le rocce e il cielo” (Gardaforum-Montichiari, 17 aprile, h 20.30) ho cliccato “forse“. Normali precauzioni da un po’ di tempo a questa parte


... Ma tu mi conosci. Farò di tutto per esserci.

Da qualche anno è diventato un evento cult ritrovarsi a onorare le performances del vostro gruppo, del vostro Teatro di Gavardo.
Che poi, detto così, fa un po’ di soggezione, ma a frequentarvi da vicino appaiono tranquillamente John, Deni, Peppino, il Luca e la Sara. E poi tu e Beatrice in platea, per le pubbliche relazioni.

Questa volta sulla locandina campeggia Deni, the voice. Il grande Andrea Giustacchini.
Immagino per il ruolo preminente affidatogli nella rappresentazione.
Da tempo ormai i vostri spettacoli esaltano le sinergie scaturite dall’amalgama di Peppino Coscarelli, alla regia, di John Comini, sceneggiatore, di Luca e Sara per gli inserti musicali e video.

Ma la luce, va detto, s’accende con la voce narrante.
Una voce intensa che asseconda le torsioni di un corpo scarno e vibrante. Un’intonazione in grado di modulare la meraviglia e lo sdegno, il paradosso e la bonaria ironia, la citazione dotta e lo slang dialettale. Il tutto per calamitare concentrazione ed emotività di un pubblico già predisposto in naturale sintonia con le storie narrate.

Mi è accaduto spesso di rilevare, confuso fra le panche degli alpini
in cappello d’ordinanza, il sussulto che trattiene la spontaneità di un applauso. Quello che scatterebbe per il pezzo di bravura, ma si frena per lo scrupolo di profanare la magia dell’atmosfera.
In ogni caso è palpabile la consonanza fra spettatori e interpreti. Le condivisioni di ideali e modelli di vita che attraverso due o tre generazioni sono rifluiti nell’idem sentire di un intero territorio. Quello valsabbino e bresciano in genere.

Protagonista è la guerra. La Grande Guerra.
La guerra dura di montagna. Quella della fatica, del gelo, della valanga, del cannone che rimbomba lontano.
Dopo cento anni si ritorna sui luoghi che ne sono stati teatro. Dopo un secolo è svaporato ogni trionfalismo ed anche il più esaltato patriottismo non potrebbe esimersi dal raggelante computo delle vittime (morti e invalidi) di quella che Pio XI definì “un’inutile strage”.

Sull’argomento la narrativa e i mass-media hanno prodotto un’infinità di pagine e immagini. Ma il tuo angolo di visuale, caro Mauro, risulta del tutto nuovo, anche se coerente col tuo status professionale e quella felice inclinazione amatoriale che ti ha portato, negli ultimi anni, a perlustrare vari itinerari di eventi bellici.

Partendo dai garibaldini fino alla ritirata di Russia
, passando per la I^ guerra mondiale. Il tutto attraverso scrupolose e defatiganti ricerche di archivio o, addirittura, sollecitando la memoria precaria di reduci e protagonisti dell’epoca.

Per “Del mio lungo silenzio“, matrice di “Qui tra le rocce e il cielo”, hai suggerito una chiave di lettura geniale e coinvolgente. Almeno per me che mi son dato da fare a leggere le bozze speditemi qualche tempo fa.

La formula è quella di dare voce ai caduti trascrivendo le loro parole da migliaia e migliaia di lettere e cartoline. Quelle depositate negli archivi di stato o custodite dalle famiglie. Senza censure o imbellettamenti.
La provenienza è quasi totalmente bresciana, ma con una particolarità che fa la differenza con analoghe pubblicazioni di epistolari.

Un folto gruppo (32 stud. e 1 prof) proviene all’archivio dei diplomati del Liceo Bagatta di Desenzano.
Giovani universitari, quindi, o appena laureati. Tutti, ovviamente, arruolati come ufficiali. Se si aggiunge che fra questi giovani il patriottismo e l’interventismo avevano trovato terreno propizio, si intuisce anche il divario ideologico, culturale, quasi antropologico che segnava le peculiarità delle diverse provenienze.

Ho notato che nell’accostare quelle esperienze
, quelle sensibilità difformi hai evitato di enfatizzarne i caratteri.
Hai lasciato al lettore il compito di rilevarli attraverso una lettura accurata e commossa.
Una lettura che forniva elementi essenziali per intuire quale sarebbe stata l’evoluzione (o l’involuzione) della società una volta terminata la guerra.
Con una massa prevalente di contadini, operai e artigiani, scarsi di istruzione e di cultura, e un ceto sovrastante di piccola borghesia oscillante fra le lusinghe di mutamenti sociali e il rassicurante ancoraggio in un conservatorismo tendente al reazionario.

Ora, fatto salvo il gap ortografico e lessicale, sono i contenuti che fanno la differenza.
Per esempio tra baldi bersaglieri... ”che mettiamo a repentaglio la vita con lo sguardo fisso alle piume che rappresentano la nostra bandiera, fiduciosi ascendiamo le irte montagne e passiamo le ridenti valli gridando – Sempre avanti Savoia-“ e l’artigliere disturbato dal fango e dai pidocchi che scrive più prosaicamente: “Termino di scrivere con la penna, ma questo dolore non passerà mai dal cuore, fino a che non sarò nella mia patria, cioè nella mia famiglia.”

Poi c’è l’ufficialetto infervorato per l’azione bellica e illanguidito dal desiderio per l’amore lontano: “All’alba, quando dovrò dare il primo comando di aprire il fuoco ti invierò il bacio più caldo che l’anima può desiderare.”
Ma questi spunti idilliaci si disperdono in un contesto da girone infernale: “In trincea si sentono solo lamentele, bestemmie contro il governo e contro i comandi, ostie continue contro la guerra e quelli che l’avevano voluta“.
 
La morte viene osservata attorno, ma i suoi effetti vengono sintetizzati alla maniera dannunziana: ”Era necessario che soffrisse affinché la sua vita potesse diventare sublime nell’immortalità della morte“ oppure secondo l’immaginazione affievolita del fante, stropicciato reduce da Caporetto: “Mi hanno rapito molti compagni attorno di me. Credo che un Supremo cié.
Ma c’è anche il tenentino socialista, interventista per propugnare giustizia e riscatto sociale, che proclama: ”non morrò da codardo, mostrerò impavido il petto al nemico, come sanno fare gli italiani“.

I dialoghi coi propri cari tendono alla concretezza: “Scrivimi, sapresti come mi è di sollievo le tue cartoline“, o ancora più sbrigativo: “Cara mamma, al presente non mi hocore niente“.

Infine balenano certi ricordi strani, per lo più cancellati dai libri di testo.
Si accenna a certe comunelle da trincea a trincea, in piedi, a scambiarsi saluti e auguri per le feste canoniche del popolo dei credenti. Distribuito di qua e di là.

Immagino già la concitazione del Deni e il fremito del pubblico assiepato.

Brescia 16 aprile 2015
PINO GRECO



Commenti:
ID57165 - 17/04/2015 12:28:25 - (nimi) -

articoli che fanno bene alla cultura, alla salute e a vallesabbianews. Grazie.

ID57169 - 17/04/2015 12:57:23 - (sonia.c) - che GIOIA leggerla ..

carissimissimissimo ,signor Pino..grazie. un abbraccio.e grazie al teatro di Gavardo .

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